Mister
Universo è l'ultimo lungometraggio diretto daTizza Covi e Rainer Frimmel, terzo
capitolo di una trilogia che comprende La Pivellina (2009) e Der Glanz des
Tages (2012).
Ancora
una volta il circo, ancora una volta una personalissima messa a fuoco su uno
degli artisti che vi lavorano. Questa volta, nello specifico, i due registi si
sono concentrati sul giovane Tairo, amante degli animali ed estremamente
pragmatico, con apparentemente un unico “tallone d’Achille”: un pezzo di ferro
piegato, a suo tempo, dal forzuto Arthur Robin, eletto Mister Universo nel ’57.
Tale pezzo di ferro è sempre stato per Tairo una sorta di talismano, un
portafortuna di grande valore affettivo. La sua perdita, dunque, spingerà il
ragazzo a viaggiare da Roma a Milano, con varie tappe, al fine di ritrovare
Arthur Robin e di farsi piegare appositamente un altro ferro.
Ed ecco che la magia, così
come le superstizioni di ogni genere (in particolare per quanto riguarda il
personaggio di Wendy, la ragazza di Tairo) diventano attrici principali in
questa nuova sfida della coppia di cineasti. Ciò che, però, in questa
operazione, maggiormente cattura l’attenzione è proprio la singolare messa in
scena adottata, la quale – proprio per la forma a metà strada tra il
lungometraggio a soggetto ed il documentario – si rifà in tutto e per tutto
alla tecnica del pedinamento proclamata a suo tempo da Cesare Zavattini. E, di
fatto, Mister Universo – come anche, d’altronde, La
Pivellina e Der
Glanz des Tages – ha
ad un primo momento, tutta l’aria di essere un documentario in piena regola,
salvo poi venire a conoscenza del fatto che il soggetto – senza una vera e
propria sceneggiatura, ma con battute improvvisate (a volte, bisogna
riconoscerlo, in modo non del tutto spontaneo, soprattutto per quanto riguarda
alcuni personaggi secondari) da attori non professionisti nel ruolo di loro
stessi seguendo una sorta di “canovaccio”- è stato precedentemente scritto a
tavolino dagli stessi autori.
E
poi c’è il circo. Il fatto di stare a rappresentare, qui, un mondo “fuori dal
mondo”, che potrebbe addirittura scomparire un domani contribuisce a regalare
al prodotto finale quel tocco di magia e di mistero che ben si sposa con la
messa in scena estremamente realista adottata. È un circo, quello mostratoci da
Tizza Covi e Rainer Frimmel, mai “spettacolare” (fatta eccezione, forse, per la
scena finale che vede Wendy esibirsi come contorsionista), mai felliniano, così
come mai inquietante o sinistro, come i cari vecchi Robert Wiene e Tod Browning
ci hanno insegnato. Un circo che, però, sta a rappresentare qualcosa di magico
e di estremamente fragile, effimero, quasi una dimensione fiabesca in cui i
protagonisti sono immersi. E che non può che, di conseguenza affascinarci
tutti.
Perché,
di fatto, questo ultimo lavoro della coppia di cineasti - perfettamente in
linea con tutta la loro filmografia, del resto – ha come scopo principale
quello di catapultarci per poco meno di due ore in un mondo a sé – che in
realtà ci è molto più vicino di quanto possiamo immaginare – facendoci perdere,
per un attimo, il contatto con la realtà, facendoci dimenticare, durante tutta
la durata del lungometraggio, della realtà che ci circonda. E non è forse anche
questa una delle finalità del cinema, d’altronde?
Marina Pavido
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