Descrizione

Anteprime e Recensioni Cinematografiche, tutto quello che c'è da sapere su Festival Internazionali del Cinema e quanto di nuovo succede intorno alla Settima Arte, a cura di Luigi Noera e la gentile collaborazione di Ugo Baistrocchi, Simona Noera e Marina Pavido.



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lunedì 12 giugno 2017

Nelle sale italiane dal 15 giugno, Parigi può attendere - opera prima di Eleanor Coppola - la recensione di Marina Pavido

Parigi può attendere -presentato in anteprima italiana alla 13° edizione del Biografilm  di Eleanor Coppola, moglie del grande cineasta Francis Ford Coppola.
La storia prende il via, non a caso, a Cannes, dove si è da poco concluso il festival e dove, per l’occasione, ha dovuto essere presente anche il produttore Michael Lockwood (Alec Baldwin) insieme a sua moglie Anne (interpretata da una splendida Diane Lane), da lui spesso trascurata a causa della sua professione. L’uomo, subito dopo il festival, deve recarsi fuori dalla Francia per lavoro, ma Anne non può seguirlo in aereo a causa di una forte otite. Sarà un socio in affari di Michael, l’affascinante Jacques (l’attore e regista Arnaud Viard), ad offrirsi per accompagnare la donna in macchina da Cannes a Parigi, dove la coppia dovrà trascorrere qualche giorno di vacanza a casa di amici. Un viaggio che in teoria dovrebbe durare solo sette ore, però, durerà ben due giorni, alla scoperta delle bellezze della Francia, del buon cibo, del buon vino e, soprattutto, di sé stessi.
Una piccola e molto personale commediola romantica, in pratica, che, si presume, può avere grande importanza per chi la realizza, ma, vista da un occhio esterno, può allo stesso tempo lasciare quasi del tutto indifferenti. Di fatto, tecnicamente parlando, non v’è nulla che non vada in questa opera prima della Coppola (d’altronde ha avuto un ottimo maestro per molti anni, oltre alla possibilità di lavorare con una squadra di ricercatissimi professionisti, prima fra tutti la costumista Milena Canonero, giusto per intenderci): lo script funziona, le ambientazioni riescono a rendere perfettamente giustizia ad una nazione tanto bella quanto variegata come la Francia, la regia è pulita e priva di inutili fronzoli. Il tutto pervaso da una grazia e da una delicatezza tipiche della commedia francese (quella ben riuscita, sia chiaro). Eppure, Parigi può attendere non riesce, di fatto, a spiccare il fatidico “salto”.
Il vero problema di questo lavoro di Eleanor Coppola è proprio la mancanza di mordente, una personalità un po’ troppo debole che come conseguenza può avere soltanto il confondersi del lungometraggio nella miriade di commedie del genere che ogni anno fanno la loro apparizione in palinsesto e che, tuttavia, sembrano somigliarsi tutte tra di loro. Forse sarà proprio il fatto di essere “la moglie di”, in questo caso, a far sì che in qualche modo ci si ricordi, in futuro, del lungometraggio in questione. Eppure, la figura di Eleanor Coppola in sé indubbiamente fa molta simpatia: un’anziana ma eclettica signora con la passione per l’arte in tutte le sue forme che dopo gli ottant’anni finalmente decide di realizzare la sua opera prima. E, chissà, magari con i prossimi lavori potrà anche regalarci piacevoli sorprese.



domenica 11 giugno 2017

Nelle sale italiane dall’8 giugno, La mummia diretto da Alex Kurtzman . la recensione di Marina Pavido

Nelle sale italiane dall’8 giugno, La mummia è l’ultimo, lanciatissimo blockbuster diretto da
Alex Kurtzman, nonché remake dell’omonimo film del 1932 – diretto da Karl Freund, con il grande Boris Karloff. Con tale lungometraggio verrà riavviata la fortunata saga iniziata nel 1999.
Ci troviamo nell’antico Egitto. La principessa Ahmanet, dopo aver ucciso suo padre ed il fratellino appena nato, che le avrebbe strappato il trono, viene mummificata viva. Circa duemila anni dopo la sua tomba viene dissotterrata ed aperta, facendola, così, risorgere e minacciando di conseguenza l’incolumità dell’intero pianeta.
Operazione rischiosa, quella di rispolverare un grande classico che ha avuto successo in passato, ma che, per quanto riguarda la relativamente recente saga che ne è nata, non ha certo avuto ciò che si dice un seguito “dignitoso”. Perché se già i tre recenti film hanno fatto storcere il naso, da un punto di vista qualitativo, a pubblico e critica, l’idea di ritornare, in qualche modo alle origini, impiegando, in questo caso, l’uso del 3D e dando vita a personaggi che hanno il difficile compito di reggere sulle proprie spalle non solo l’intero lungometraggio, ma anche – si presuppone – i prossimi a venire, di certo non lascia presagire il meglio. E infatti, purtroppo, le aspettative si sono rivelate fondate.
Di fianco ad una regia tutto sommato buona (la produzione, di fatto, ha scelto un buon mestierante in merito), con esplosioni e scene subacquee decisamente ben riuscite (e ben valorizzate da un 3D che solo in momenti come questi si è rivelato realmente utile), troviamo uno script ricco di forzature, con frequenti trovate che scadono nel ridicolo involontario ed un protagonista talmente caricato e poco credibile da non riuscire ad empatizzare con il pubblico neanche dopo quasi due ore di film.
Cosa resterà, alla fine, al pubblico? Di fatto, ben poco. Ed ecco che, dopo una visione come questa, ci troviamo a rimpiangere le piccole, preziose pellicole statunitensi degli anni Trenta, quando i mostri creati per il grande schermo erano davvero indimenticabili.
Marina Pavido


giovedì 8 giugno 2017

Il crimine non va in pensione è l’opera prima dell’attore Fabio Fulco - la recensione di Marina Pavido

Edda, anziana signora che vive in una casa di riposo, è stata costretta ad impegnare la propria fede nuziale al fine di aiutare la figlia in gravi ristrettezze economiche. In seguito a ciò, la donna viene colta da un malore ed i suoi amici, anche loro pensionanti della medesima residenza per anziani, decidono di organizzare una rapina – con l’aiuto dell’inserviente Sasà – in una sala bingo della zona, al fine di aiutare la loro amica.
Indubbiamente, e già dai primi minuti, si notano ottime intenzioni da parte dell’attore/regista: il suo è uno sguardo che di certo vuol bene ai protagonisti e che denota particolare attenzione e sensibilità verso il mondo degli anziani stesso. Uno sguardo, dunque, sì onesto, ma che – vista la poca esperienza dietro la macchina da presa – risulta talvolta eccessivamente ingenuo e maldestro.
Troppo invadente, ad esempio, il commento musicale, condito da inquadrature e movimenti di macchina che tanto stanno a ricordarci un videoclip, ma che risultano, in realtà, decisamente forzate. Stesso discorso vale per i titoli di testa, quando ci vengono presentati i protagonisti alla tarantiniana maniera: una trovata tra le più abusate della storia del cinema (forse addirittura più del famoso fermo immagine a conclusione de I 400 colpi di François Truffaut).
Il resto è, purtroppo, qualcosa di fortemente prevedibile: una sceneggiatura dove, condite di quando in quando da qualche trovata divertente, fa da protagonista una serie di battute decisamente poco naturali, insieme a pericolosi buchi all’interno dello script stesso; un malriuscito tentativo di dar luce ad una storia corale (ma, si sa, nessuno è Robert Altman) e, infine, una maldestra direzione attoriale e personaggi che non sempre risultano appropriati al contesto (la scelta di Stefania Sandrelli e di Ivano Marescotti, ad esempio, non si è rivelata troppo giusta, dal momento in cui entrambi gli interpreti sono decisamente troppo giovani per impersonare due anziani in una casa di riposo).
Opera prima sentita, ma poco riuscita, dunque. Peccato. Perché il tema di base avrebbe potuto dar vita a qualcosa di decisamente interessante. Eppure, basterebbe fare un salto di pochi anni indietro per ritrovarsi davanti un’altra opera prima, anch’essa diretta da un attore, anch’essa ambientata in una casa di riposo. Stiamo parlando del delizioso Quartet, di Dustin Hoffman. Ma questa è un’altra storia.

domenica 21 maggio 2017

Da Un certain regard del Festival di Cannes 2016 nelle sale italiane!

Nelle sale italiane dal 25 maggio, Ritratto di famiglia con tempesta è l'ultimo lungometraggio del regista giapponese Hirokazu Kore'eda, presentato nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2016 - la recensione di Marina Pavido
Ryoto è un ex scrittore di successo con il vizio del gioco d’azzardo che, al fine di poter pagare gli alimenti al figlio, collabora con un detective privato. Rimasto da poco orfano del padre, l’uomo farà ritorno per qualche giorno alla sua cittadina natale, dove abita ancora la sua arzilla ma anziana madre e dove avrà modo di vedere suo figlio e la sua ex moglie. Un minaccioso temporale farà sì che tutta la famiglia riunita sia costretta a trascorrere la notte sotto lo stesso tetto.
Ma cosa comporterà, in realtà, la tempesta? Il protagonista, di fatto – come spesso affermato dalla sua stessa madre – è un eterno bambino mai cresciuto, un albero di mandarini che non dà frutti né fiori, ma che è molto utile a sfamare i bruchi destinati a trasformarsi in splendide farfalle. Ryoto, dal canto suo, di certo non può dirsi maturato fino in fondo, eppure sarà in grado ad insegnare al proprio figlio – eccessivamente maturo per la sua età – quant’è bello sognare ad occhi aperti e coltivare i propri sogni, indipendentemente dal fatto di riuscire o meno a realizzarli. Sarà la tempesta, dunque, a spazzare via ogni qualsivoglia dubbio nei confronti dei rapporti con i propri famigliari ed ogni timore per quanto riguarda il futuro. Ed ecco che Ryoto padre non ha più paura di riscoprirsi Ryoto figlio, riconciliandosi in qualche modo con il genitore defunto dopo aver preso definitivamente coscienza dell’affetto che quest’ultimo nutriva per lui.
Ancora una volta, dunque, la figura paterna diventa tema centrale in Kore’eda. È stato così per il bellissimo Father and son (2013), così come per il recente Little sister (2015), dove la figura del padre scomparso darà il via all’intera vicenda. Anche qui è il genitore defunto ad avere un peso centrale nello sviluppo del protagonista: è a causa del rapporto irrisolto tra i due che Ryoto rifiuta inconsciamente di crescere, è a causa delle loro incomprensioni che l’uomo cerca a tutti i costi di non commettere gli stessi errori con il proprio figlio e di spronarlo a coltivare i propri sogni.
Un lungometraggio, dunque, piuttosto complesso e stratificato. Una storia assolutamente non facile ed estremamente delicata che solo un cineasta del calibro di Kore’eda – con il suo sguardo attento e mai invasivo - avrebbe potuto mettere in scena. Ed ecco che piccoli gesti di normale quotidianità come il preparare i letti o l’amorevole attenzione e cura nel cucinare diventano attraverso la macchina da presa pura poesia. Una macchina da presa che, dal canto suo, si colloca sempre all’altezza del personaggio, quasi alla ozuiana maniera, riuscendo ad entrare così nel suo intimo senza mai risultare invadente. È soprattutto questa, dunque, l’abilità di Kore’eda: la capacità di riuscire a mantenere, da adulto, la freschezza e lo sguardo limpido di un bambino, facendo in modo che anche noi tutti possiamo ritornare, anche solo per un paio d’ore, a vedere il mondo come eravamo soliti fare tanti, tanti anni fa.

Marina Pavido

venerdì 12 maggio 2017

Song to song di Terrence Malick nelle sale dal 10 maggio– la recensione di Marina Pavido.

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BV è un musicista in cerca di successo. Un giorno, durante una festa a casa del suo produttore Cook, incontra e si innamora di Faye, la quale ha, però, già una relazione con Cook. Tra i tre si stabilirà un legame particolare, apparentemente forte, ma dagli equilibri in realtà molto più fragili di quanto si possa pensare.Dopo aver presentato in concorso alla73 Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia il documentario Voyage of Time, ecco che Terrence Malick torna ad essere stilisticamente parlando il Malick che noi tutti conosciamo (ed amiamo) con i suoi temi di sempre: il senso di spaesamento, la ricerca di sé stessi, l'effetto che ognuno di noi ha sugli altri e via dicendo. È stato così, ad esempio, per i suoi ultimi lungometraggi di finzione - To the wonder e Knight of Cups - ed è così anche per questo suo ultimo lavoro, dove le origini, la famiglia, l'amore e, soprattutto, la musica, si fanno colonne portanti di tutta la narrazione. Tale senso di spaesamento viene ben sottolineato dai grandangoli - che tanto piacciono a Malick - così come da scenografie che prevedono appartamenti iper moderni con pareti di vetro che sembrano quasi inesistenti e che rendono il tutto altamente agorafobico.
Ottima scelta si rivela, inoltre, il cast, dove vediamo praticamente il meglio di quanto il panorama hollywoodiano possa attualmente offrirci: da Ryan Gosling a Rooney Mara, senza dimenticare Michael Fassbender, Natalie Portman e la grandissima Cate Blanchett. Attori che, in ogni caso, sono già stati "testati" da Malick nei suoi precedenti lavori, talmente belli e perfetti da sembrare quasi irreali pur con tutte le loro debolezze qui messe in scena.Al via, dunque, il flusso di coscienza tipicamente malickiano - con le sue voci fuoricampo e le sue numerose e fluide carrellate (con tanto di fotografia firmata Emmanuel Lubezki) - che sembra quasi voler metterci davanti alle nostre stesse debolezze e che, diciamolo pure, pur essendo uno stile talmente estremo da essere spesso odiato, risulta in Malick ormai vincente. D'altronde Terrence Malick è come è. E ci piace proprio per questo.Diventato negli ultimi anni particolarmente prolifico, ha già pronto, tra l'altro, un nuovo lavoro:Radegund. E, siamo certi, sicuramente non ne resteremo delusi.

domenica 7 maggio 2017

Nelle sale italiane dal 4 maggio The space between opera prima della regista italo-australiana Ruth Borgobello – la recensione di Marina Pavido

Il film è stato presentato in anteprima all'ultima edizione di Alice nella città.
Ci troviamo ad Udine. Il giovane Marco, dopo aver vissuto qualche anno a New York lavorando come chef, viene messo in cassa integrazione dal proprio datore di lavoro. Insoddisfatto dalla propria vita, si convincerà pian piano ad allargare i propri orizzonti ed a perseguire il proprio sogno di tornare a fare lo chef in seguito alla morte improvvisa del suo migliore amico ed in seguito all'incontro con Olivia, giovane ragazza australiana che sogna di diventare una stimata designer.Indubbiamente questa opera prima di Ruth Borgobello nasce da ottimi intenti. Intellettualmente onesto, questo suo primo lungometraggio risulta, però, piuttosto ingenuo da un punto di vista prettamente cinematografico. Ciò riguarda soprattutto la scrittura: vi sono non pochi elementi tirati in ballo e lasciati in sospeso che più che una scelta voluta sanno tanto di distrazione da parte dell'autrice stessa (il negozio dell'amico, la ragazza del protagonista che vediamo nelle scene iniziali, così come lo stato di salute del padre del ragazzo sono solo alcuni esempi in merito), oltre a forzature poco convincenti (lo scherzo al citofono da parte di alcuni ragazzi, così come la nascita dei gattini del protagonista). Stesso discorso vale per la regia, soprattutto per quanto riguarda la direzione degli attori: troppo innaturale, in alcuni momenti talmente sopra le righe da far perdere di credibilità a tutta la scena.Eppure bisogna riconoscere che alcune ambientazioni, così come il respiro internazionale e l'importanza del mondo onirico che l'autrice ha voluto dare a questa sua opera sono indubbiamente trovate interessanti. Chissà, forse è proprio la scarsa esperienza dietro la macchina da presa della regista l'unico vero ostacolo alla buona riuscita del film. Se Ruth Borgobello riuscirà o meno a "crescere", però, lo sapremo solo dopo la visione dei suoi prossimi lavori, ai quali, si spera, non mancherà quella genuinità di fondo che caratterizza questa sua ingenua opera prima.

sabato 6 maggio 2017

Nelle sale italiane dal 4 maggio SASHA E IL POLO NORD lungometraggio d’animazione d'esordio del regista francese Rémy Chayé –la recensione di Marina Pavido

Sasha è una giovane aristocratica russa. Vivace e ribelle, si oppone fin da subito alla sua famiglia, la quale ha già organizzato per lei un matrimonio combinato. La ragazza è da sempre appassionata di viaggi. Passione, questa, che le è stata trasmessa da suo nonno Oloukine, stimato esploratore mai tornato a casa dopo un viaggio al Polo Nord. Sarà volontà di Sasha partire alla volta del Grande Nord sulle tracce di suo nonno.Interessante esordio nel lungometraggio, questo di Rémy Chayé. Dopo essersi fatto notare, infatti, per i suoi precedenti lavori (The secret of Kells, del 2009, e La tela animata, del 2011) ecco dare vita, a quattro anni dalla sua ultima produzione, ad un romanzo di formazione sincero ed appassionante, con personaggi ben scritti - Sasha in primis, così come suo nonno ed i suoi compagni di viaggio, ad esempio - e, non per ultima, una realizzazione grafica particolarmente interessante, la quale prevede figure quasi bidimensionali e prive di contorni, ma, allo stesso tempo, curate nei dettagli, analogamente ai fondali che ci mostrano ora gli interni dell'aristocratico palazzo dove vive Sasha, ora il magnetico e sconosciuto Polo Nord.Una storia ambientata in Russia alla fine dell'Ottocento, ma che - proprio per la portata universale dei temi trattati, ossia la scoperta di sé stessi, la crescita, il difficile passaggio all'età adulta, l'amore per la verità e per l'avventura - può essere considerata a tutti gli effetti una storia senza tempo.Ed ecco che un altro nome si affaccia sul panorama dell'animazione in Francia, la quale, a sua volta, grazie ad una particolare ricerca del nuovo e grazie soprattutto ad autori come Alain Gagnol, Jean-Loup Felicioli e Jean-François Laguionie (giusto per citarne solo alcuni) si conferma come uno dei paesi europei maggiormente interessanti nell'ambito del cinema d'animazione.

lunedì 1 maggio 2017

XIX° Far East Film Festival – i film scelti per noi da Marina Pavido: My Uncle del regista giapponese Nobuhiro Yamashita.

Con questa recensione concludiamo il ciclo di film asiatici raccontati da Marina Pavido. Al Festival di Udine appena terminato un'altro film giapponese è risultato il più votato dal pubblico e dagli accreditati Black Dragon. Ci riferiamo a Close-Knit della regista giapponese Ogigami Naoko. Seguono per gli Audience Awards Split - con il punteggio di 4,43 e Canola - con il punteggio di  4,42, mentre il Mymovies Award  va a Mad World
Ma torniamo a My Uncle. È questa la storia del giovane Yukio: un bambino dotato di grande sensibilità e molto maturo per la sua età al quale viene chiesto, a scuola, di scrivere un tema su di un adulto di sua conoscenza. Chi potrebbe essere, dunque, il prescelto, se non lo zio che vive a casa con lui? Pigro e taccagno, appassionato di filosofia ed imbranato, l’uomo non ci metterà molto a colpire l’attenzione della maestra di Yukio, la quale deciderà di far partecipare il ragazzo ad un concorso extrascolastico, dove verrà conferito un importante premio a chi avrà scritto il tema migliore. Yukio vincerà, dunque, un viaggio per due persone alle Hawaii e deciderà di andarci proprio con suo zio, il quale nel frattempo si è perdutamente innamorato di una ragazza appena trasferitasi lì.Se si pensa alla cinematografia di Yamashita, questo suo penultimo film risulta quasi come “staccato” dal resto dei suoi lungometraggi. Interessante l’idea di dar vita ad una commedia brillante, ma, forse, malgrado la qualità nel complesso alta del prodotto in sé, con troppo poco nerbo il risultato finale, se si vuol ripensare, appunto, ad altri lavori dell’autore. Il
problema principale è, in questo caso, proprio la gestione dei tempi: parte piuttosto bene la storia nel momento in cui Yukio inizia a scrivere il tema su suo zio. Anche la voce narrante del ragazzo risulta, qui, particolarmente appropriata. Lo stesso non si può dire per quanto riguarda la seconda parte del film, precisamente dal momento in cui i due partono per le Hawaii: il tono iniziale cambia inevitabilmente, le gag risultano eccessivamente forzate e tutto viene tirato per le lunghe. Stesso discorso vale per quanto riguarda la pseudo storia dello zio con la ragazza di cui è innamorato, così come per personaggi che sembrano creati ad hoc per fare da riempitivi, ma che, di fatto, risultano decisamente inutili al fine di far procedere la narrazione. Uno di questi è, ad esempio, l’uomo che lavora nella piantagione di caffè della ragazza dello zio.
Detto questo, però, non mancano momenti interessanti come le scene che vedono i due, zio e nipote – entrati a tal punto in sintonia da indossare addirittura camicie uguali - chiacchierare in riva al mare. Così come proprio quasi tutta la prima parte del film, dove le trovate comiche funzionano alla perfezione: esilaranti i tentativi da parte dello zio di estorcere dei soldi a Yukio per comprarsi dei manga o la sua ricerca spasmodica di lattine per raccogliere il maggior numero di bollini possibile al fine di avere la possibilità di vincere un viaggio alle Hawaii. Il regista, dal canto suo, ha saputo ben raccontare il mondo dal punto di vista del bambino. Un mondo dove, di base, fanno da padroni colori pastello, brevi inserti di animazione ed atmosfere al limite del surreale. Per la sua attenzione nei confronti dell’infanzia potrebbe addirittura, in alcuni momenti, far pensare a Hirokazu Kore’eda, anche se, in questo caso, ci troviamo di fronte ad un prodotto di tutt’altro genere.Ma, di fatto, è proprio il personaggio dello zio la vera peculiarità di questo lavoro di Yamashita. Talmente ben scritto e ben interpretato dal bravo Ryuhei Matsuda, trova il suo completamento ideale al fianco del giovane nipote. Una coppia talmente ben riuscita, la loro, da far pensare anche ad un possibile sequel. E chissà che non ci abbia pensato lo stesso Yamashita, nel momento in cui ha optato per una sorta di finale aperto con l’ultima parola lasciata al gatto di casa!

XIX° Far East Film Festival – i film scelti per noi da Marina Pavido

 52HZ, I love you - Musical del regista taiwanese Wei Te-sheng

Taipei. Mattino. Ora di punta. La strada è gremita di automobili ferme per il troppo traffico. Una ragazza improvvisamente esce dall’auto, prende un monopattino e, intonando le note di una canzoncina orecchiabile, prosegue dritta per la strada. È il giorno di san Valentino e - tra amori non corrisposti, storie che durano da tanto tempo e che sono ormai al capolinea e coppie gay che sognano di sposarsi e di avere una famiglia tutta loro – tutti sono, chi più, chi meno, in vena di fare festa.L’inizio, ovviamente, è quello del fortunato lungometraggio di Damien Chazelle, dunque. Il resto è un mix tra l’intramontabile Singining in the rain di Stanley Donen, il bellissimo Les parapluies di Cherbourg di Jacques Demy e lo stesso La La Land. Salvo che, al contrario dei lavori sopra menzionati, quello che questo ultimo lavoro di Wei Te-sheng vuole essere è un inno all’amore universale, senza se e senza ma, comprensivo di tutti i possibili clichés in cui si può incappare affrontando un tema abusato come questo.
Niente ombrelli ma rose rosse, stavolta. Niente Cathrine Deneuve - con tanto di madre dispotica al seguito - ma una giovane fioraia innamorata dell’amore con una zia che vuol essere cinica ma che, in fondo, non sembra proprio riuscirci. Fatta eccezione per le scene in interni, le strade di Taipei – ricostruite rigorosamente in studio, come da tradizione – stanno tanto a ricordarci i musical della Hollywood degli anni d’oro (oltre, ovviamente allo stesso Les parapliues de Cherbourg), quei musical gloriosi resi ottimamente sul grande schermo dallo stesso Stanley Donen, da Vincent Minnelli e compagnia bella. Ce li ricorda, o almeno vorrebbe ricordarceli. Vorrebbe ma non ci riesce. Se non altro i lavori sopra citati si sono distinti a loro tempo (anche) per delle ottime coreografie, cosa che qui pare sia stata quasi saltata a pie’ pari. Probabilmente anche involontariamente o, meglio ancora, inconsapevolmente.
L’amore qui raccontato è banale, estremamente idealizzato, non fiabesco ma irreale per il suo essere così costruito. Talmente finto nella sua rappresentazione da rendere il lungometraggio quasi un puro divertissement, un omaggio all’Omaggio al Cinema (l’Omaggio per eccellenza di cui si è tanto parlato ultimamente), privo di uno sguardo soggettivo dell’autore, così come di ogni qualsivoglia personale peculiarità. Un film apparentemente senza pretesa alcuna. Se non fosse per il fatto che l’autore stesso lo ha definito scherzando (ma non troppo) addirittura più bello di La La Land.

venerdì 28 aprile 2017

XIX° Far East Film Festival – i film scelti per noi da Marina Pavido: Over the fence


Con questo suo penultimo lavoro il regista, sceneggiatore ed attore giapponese Nobuhiro Yamashita ci presenta la storia dell’incontro tra Shiraiwa e Satoshi, entrambi con alle spalle il loro passato.
Shiraiwa è un quarantenne fresco di divorzio. In attesa di trovare un nuovo impiego si trasferisce al suo paese natale ed inizia una scuola di falegnameria. Una sera, in un locale, incontra la bella e stravagante Satoshi, una cameriera che sa imitare alla perfezione i versi degli uccelli e che, tuttavia, dimostra anche qualche segno di squilibrio mentale. Non sarà facile per i due venirsi incontro ed imparare a conoscersi.
Basterebbero, in realtà, solo i due protagonisti come unici attori sullo schermo, affinché questo ultimo lavoro di Yamashita funzioni. Perché, di fatto, in tutta la loro stranezza sono entrambi talmente perfetti e magnetici da catalizzare immediatamente su di loro l’attenzione. Shiraiwa ha un passato difficile: la sua ex moglie ha cercato di soffocare la loro figlioletta di pochi mesi. E se fosse lui stesso il responsabile della follia della donna? A comprendere ciò può aiutarlo soltanto Satoshi, considerata da tutti eccessivamente sopra le righe, quasi al limite della pazzia. Un uccello prigioniero all’interno di una gabbia costruita dalle più grette convenzioni sociali, alle quali non ha mai voluto adattarsi. È per questo, forse, che solo immedesimandosi nei volatili può immaginare di riuscire a volare lontano dal posto in cui vive. Probabilmente, però, per riuscire a spiccare davvero il volo oltre le barriere della gabbia in cui si trova, avrà bisogno di un compagno, al quale, magari, lei stessa potrà insegnare a volare.
Fin da subito Yamashita, nel raccontarci questi due singolari personaggi,
lavora di sottrazione: non vi è spazio – se non quando strettamente richiesto – per dialoghi superflui o musiche ingombranti. Ciò che viene detto ci dà solo una chiave per interpretare il tutto. Le azioni dei due protagonisti sono, a tal proposito, decisamente significative: mentre Satoshi cerca di abbattere le barriere che la circondano liberando tutti gli uccelli dalle gabbie nel luna park in cui lavora, Shiraiwa, dal canto suo, non fa che costruire una sorta di “gabbia” in legno presso la scuola che sta frequentando. Solo con il tempo – e con un lungo, difficile e spesso doloroso percorso interiore, i due riusciranno finalmente a sincronizzare le loro azioni puntando verso uno stesso obiettivo.
Nel frattempo saranno scene di grande poesia e di grande potenza visiva a raccontarci passo passo la loro storia. Di notevole bellezza, a tal proposito, il momento in cui i due ragazzi, di notte, dopo aver raccolto nel luna park deserto una grande quantità di piume di uccelli, le lasciano volare via una dopo l’altra mentre viaggiano in scooter. Momenti che potrebbero essere definiti quasi al limite del surreale che solo uno sguardo attento come quello di Yamashita – il quale, a sua volta, sembra non disdegnare affatto eventuali suggestioni dalla cinematografia del collega Takeshi Kitano – riesce a catturare così bene.
L’unica pecca – se così può essere definita – è, in realtà, una seconda parte eccessivamente telefonata che va a terminare in un finale pericolosamente retorico. Ma, si sa, per la piega che il lungometraggio ha preso fin dall’inizio, aspettarsi un esito del genere è quasi scontato. Dato il regalo che ci ha fatto con questo suo lavoro, però, scivoloni del genere li si perdona facilmente ad un cineasta come Nobuhiro Yamashita. Il quale, giusto per restare in tema, malgrado la giovane età, il volo lo ha già spiccato da diversi anni.

XIX° Far East Film Festival - i film scelti per noi da Marina Pavido: VANISHING TIME: the boy who returne


Nell’ultimo suo lavoro il giovane cineasta sudcoreano Um Tae-hwa, ci parla di una bambina solitaria appassionata di esoterismo, di un compagno di classe innamorato di lei e di un gruppo di amici e la voglia di vivere ogni giorno nuove avventure. È da qui che prende il via tutta la vicenda.
La freschezza, la gioia di vivere dei protagonisti fa sì che tutti noi durante i primi minuti torniamo con la mente inevitabilmente a Stand by me. Eppure, nel momento in cui i ragazzi scoprono un misterioso uovo fluorescente all’interno di una grotta, ecco che la situazione sembra prendere tutta un’altra piega: in seguito alla rottura dell’uovo la terra inizia a tremare, la giovane protagonista – allontanatasi per un attimo dal gruppo – si ritrova da sola ed i suoi amici sembrano misteriosamente scomparsi. Sarà proprio lei, unica superstite, ad essere accusata dalla gente del luogo per quanto riguarda la responsabilità dell’accaduto. Ma, di fatto,
cos’è che è realmente accaduto? Ed ecco che il tempo fa il suo gioco, arrestandosi apparentemente per il mondo intero ma continuando a scorrere solo per pochi altri, i quali, a loro volta, saranno inevitabilmente costretti a pagarne le conseguenze. Dall’altro lato abbiamo la società: severa, impietosa, timorosa nei confronti di ciò che è “diverso”. Quasi come se, con le sue leggi rigide e severe, costringesse ogni singolo abitante ad essere in un determinato modo, giudicandolo e sorvegliandolo costantemente. Molto interessante, a tal proposito, il ruolo che il regista ha assegnato alle telecamere: è inquadrato in dettaglio, non appena partono i titoli di testa, l’obiettivo, ancora chiuso, della telecamera di un’assistente sociale che sta per intervistare la bambina; nel momento in cui tale obiettivo si apre, ecco che prende il via la vicenda. Sono numerose telecamere, tra l’altro, ad essere disseminate per tutta la cittadina. A loro il compito di fermare ogni eventuale sospetto. Sì è costantemente osservati, ogni piccolo gesto viene registrato. Guai a chi prova a sgarrare.  Dal canto suo, anche la location dove si svolge la vicenda è alquanto indicativa: una piccola cittadina circondata da fitti boschi su di un’isola che sembra essa stessa fuori dal tempo. Un’isola da cui non è facile andare via. Un’isola che, in luce di quanto appena detto, diviene degna e fedele trasfigurazione di ciò che è oggi la Corea del Nord. Dall’altro lato, però, abbiamo il mondo dei bambini. L’unico mondo ad essere rimasto “incontaminato”. Un mondo dove l’amicizia, l’amore, la libertà fanno da protagonisti assoluti insieme a dettagli di volti, di sorrisi, di occhi, di piccoli ma preziosi oggetti messi in risalto da una regia attenta e curata, dove nulla è lasciato al caso. Un mondo, questo dell’infanzia, che, alla fine dei giochi, non può non risultare vincitore assoluto. Peccato che, al termine di un’operazione così interessante, Um Tae-hwa abbia calcato un po’ troppo la mano, inquadrando i due protagonisti – la bambina ed il suo migliore amico – su di una nave completamente vuota che naviga libera in mare. Tuttavia viene facile perdonare piccole cadute di stile del genere, se si pensa al prodotto nel suo intero. Malgrado, infatti, la relativamente poca esperienza del cineasta coreano, il risultato finale dimostra indubbiamente una straordinaria maturità. Evidentemente l’aver fatto per anni da aiuto regia al grande Park Chan-wook la differenza la fa eccome.

lunedì 24 aprile 2017

XIX° Far East film Festival - I film scelti per noi da Marina Pavido: At Café 6

Opera prima del regista taiwanese Neal Wu, tratta dall'omonimo romanzo dello stesso autore. Quanto può essere forte un amore nato tra i banchi di scuola? Dove è capace di arrivare la vera amicizia? È possibile che una storia resista alla distanza? Sono questi tutti gli interrogativi che il regista qui si pone, raccontandoci le vicende di Guan Ming-lu, studente liceale innamorato della bella Xin-rui. Tra litigi tra compagni di classe, gite e scherzi tra amici, i due alla fine si metteranno insieme. Le cose, però, si faranno complicate nel momento in cui i due ragazzi andranno a frequentare due università diverse.
Che questa sia l’opera prima del regista taiwanese si intuisce facilmente. Innanzitutto, ciò che lo contraddistingue è una particolare freschezza, una gioia di vivere che permea soprattutto la prima parte del film. È questo il momento in cui, spesso e volentieri, il montaggio sembra seguire delle regole tutte sue, quasi volesse seguire il ritmo di una musica ideale. Non a caso, infatti, è la stessa musica a fare da protagonista in molte sequenze (interessante, a tal proposito, la scena della rissa tra ragazzi, montata per intero al ralenty, con le note di Johann Strauss in sottofondo), stando quasi a ricordare un videoclip. Nella seconda parte del lungometraggio, però, le cose cambiano radicalmente: al via, ora, attese, viaggi, silenzi, litigi ed incomprensioni. Il tutto raccontato con una messa in scena decisamente più classica: montaggio lineare, uso moderato della musica, regia curata ed essenziale. Quasi come se la freschezza dell’adolescenza fosse pian piano svanita. Non sempre Neal Wu riesce a gestire come si deve tale cambio di registro. Più che altro fatica parecchio a dare al tutto una certa, necessaria fluidità. Stesso discorso vale per la gestione dei numerosi flashback presenti: troppi, troppo frequenti, decisamente eccessivi e a volte fuorvianti per una storia che pur partendo bene, man mano che ci si avvicina al finale tende ad essere sempre più forzata e stiracchiata, fino a risultare addirittura troppo caricata. Con tanto di inutile
spiegone subito dopo i titoli di coda.
Nonostante ciò, come già è stato detto, questo lungometraggio di Neal Wu ha dalla sua una certa onestà e genuinità. Non pretende di essere più di quello che è e fin da subito si intuisce innanzitutto il fatto che la storia sia sentita dall’autore fino in fondo. Senza contare che, di quando in quando, vi sono non pochi momenti particolarmente interessanti – ed estremamente poetici – da un punto di vista prettamente registico (la scena della gita fuori città con i compagni di liceo ne è un esempio, così come l’immagine del migliore amico del protagonista – ormai adulto - che ricorda il passato in riva al mare, danzando come erano soliti fare entrambi da ragazzi). Ad ogni modo, un'interessante operazione.Marina Pavido

sabato 22 aprile 2017

XIX° Far East film Festival - I film scelti per noi da Marina Pavido: At the Terrace

Presentato in anteprima alla XIXma edizione del Far East film Festival, At the terrace è l'ultimo lungometraggio del regista giapponese Yamauchi Jenji

Su di un'elegante terrazza di una casa signorile sta avendo luogo una festa: uomini e donne dell'alta borghesia si incontrano e tentano di intrattenere conversazioni, pur non conoscendosi tra di loro e non provando alcun interesse per ciò che gli altri invitati hanno da dire. Dopo i primi momenti di imbarazzo, però, una volta entrati nel vivo della serata, gli equilibri creatisi inizieranno a vacillare sempre di più.

Se pensiamo ai numerosi lungometraggi del genere ad impostazione teatrale girati negli ultimi anni – primo fra tutti, il molto ben riuscito Carnage di Roman Polanski, così come molti altri analoghi prodotti la cui creazione è forse stata incentivata proprio in seguito al successo di Carnage stesso – ciò che ci appare è uno sciame di pellicole tutte somiglianti tra di loro. Storie di famiglie perbene, che, però, in seguito ad un qualsiasi fattore scatenante apparentemente di poca importanza, tirano fuori tutta la rabbia ed i rancori non appena sono costretti a passare del tempo a contatto ravvicinato. Basti pensare – giusto per non andare troppo indietro nel tempo – al recente The party, diretto da Sally Potter e presentato in concorso alla Berlinale, così come all’urticante The dinner, di Oren Moverman, presente anch’esso in concorso alla medesima edizione. Il rischio di tali lungometraggi è, come prevedibile, quello, appunto di diventare ognuno la (bella o brutta) copia dell’altro, diventando, spesso e volentieri, addirittura pretenziosi – come nel caso di questo ultimi lavori della Potter e di Moverman, appunto – e limitandosi a strappare allo spettatore solo qualche sorriso qua e là. Possibile epilogo questo, ma, fortunatamente, non sempre ciò si verifica. Ed eccoci arrivati,
finalmente, a questo ultimo lungometraggio di Yamauchi Kenji. In che modo il cineasta giapponese è riuscito a “fare la differenza”? Innanzitutto, qui le dinamiche sono diverse. Non vi sono rapporti preesistenti, non vi sono antichi rancori. Quello che qui viene preso di mira è, appunto, l’abitudine a fingere, in società, di essere in un determinato modo. Salvo poi far cadere la maschera quando vengono meno i cosiddetti freni inibitori, annullati, nel nostro caso, dall’ alcool. Ed ecco, dopo i primi, esilaranti momenti in cui l’imbarazzo di dover intrattenere una conversazione con sconosciuti fa da padrone, arrivare - una volta scaldati i motori – il famoso fattore scatenante che stravolgerà gli equilibri. Nel nostro caso si tratta di un qualcosa di vecchio come il mondo: la spietata ed efferata competitività tra donne. Chi sarà la più bella della festa? La procace padrona di casa o la timida e dolce mogliettina di uno degli invitati? Al pubblico l’ardua sentenza. Fatto sta che, una volta scoppiata la lite tra le due, ne accadranno davvero di tutti i colori. Protagonisti assoluti: gli sguardi e le espressioni – in primo piano o sapientemente dislocate ai lati dello schermo - di ogni singolo personaggio, degnamente rappresentato sul grande schermo da un cast di tutto rispetto.
Decisamente interessante, dunque, questo ultimo lavoro di Yamauchi Kenji. Non facile, sia per quanto riguarda la scelta dei tempi comici giusti, sia per quanto riguarda l’ancor più arduo obiettivo di acquisire – in un mare di prodotti che tendono tutti a somigliarsi tra di loro - una propria, marcata identità. Eppure il cineasta giapponese è riuscito in entrambi gli intenti. Se non altro ha dato vita ad un lungometraggio che, nell’ambito di una partenza piuttosto tiepidina, è in qualche modo riuscito a fare la differenza in questi primi giorni di Far East Film Festival.


Marina Pavido

giovedì 20 aprile 2017

Nelle sale italiane dal 13 aprile Mal di pietre - la recensione di Marina Pavido


Ultimo lungometraggio della regista ed attrice francese Nicole Garcia, tratto dall'omonimo romanzo di Milena Agus e presentato in concorso al Festival di Cannes 2016.
Gabrielle non è una persona semplice. Nata e cresciuta in un piccolo paesino nella Francia degli anni Cinquanta, ben poco sembra adattarsi al contesto in cui vive, alle tradizioni ed alla mentalità eccessivamente chiusa e provinciale dei suoi compaesani. È, al contrario, una donna libera, appassionata, fortemente bisognosa d’amore ed estremamente fragile. Talmente fragile da soffrire di “mal di pietre”, con tanto di dolorosi crampi addominali. Un male, il suo, del tutto psicosomatico, che soltanto curando mente e spirito potrà essere sconfitto. Per quanto riguarda la mente, però, i problemi sono ben altri, dal momento che proprio per questo suo modo di “urlare” i suoi bisogni affettivi, Gabrielle è, a detta di tutti, famigliari compresi, completamente pazza. Solo suo marito, sposato più per il desiderio di fuggire da quell’ambiente angusto ed ostile che per amore, sembra riuscire a “leggere tra le righe”, a capire quella persona così complessa e così ostinata che vive al suo fianco.
Un personaggio dalle mille sfaccettature, dunque, quello di Gabrielle. Un personaggio che viene reso magnificamente sullo schermo dalla bravissima Marion Cotillard (lei, si sa, può davvero tutto), ma a cui non viene reso giustizia dal punto di vista dello script in sé: quel che emerge della protagonista è solo la “punta dell’iceberg”. Nulla ci viene detto del suo passato, ben poco vengono approfonditi i legami con José – suo marito – ed André, il suo amante. Personaggi, anch’essi, di grande interesse e complessità (soprattutto per quanto riguarda José), ma che vengono qui sviluppati in modo eccessivamente raffazzonato e frettoloso. Il tentativo di narrare per immagini i tormenti interiori di ognuno di essi risulta, dunque, carente di una necessaria e più profonda introspezione, così come il buon Ingmar Bergman ci ha insegnato. Ma, si sa, non è affatto facile rifare Ingmar Bergman.
Ben poco, quindi, possono suggestive inquadrature di panorami mozzafiato o fedeli ricostruzioni di ambienti d’epoca. Il grande problema di Mal di pietre – oltre alla musica eccessivamente presente, smielata e quasi patetica - è proprio lo script. Uno script che, pur mantenendo di base la storia originale, ha voluto “spiccare il volo”, assumere una propria identità perdendo, però, il controllo della situazione e dando vita a qualcosa di banale ed inconsistente, malgrado le iniziali potenzialità. Uno script a cui si perdonano, tuttavia, soltanto i velati riferimenti/omaggi al cinema ed alle sue origini (vedi la cittadina di La Ciotat, dove vivono Gabrielle e José, ma anche la loro permanenza a Lione – città dei fratelli Lumière – presso l’hotel Langlois – proprio come il caro vecchio Henri Langlois!). Ma, si sa, tutto questo non è abbastanza. Ed ecco che anche Mal di pietre si andrà ben presto ad unire ai numerosi prodotti passati in sala e finiti quasi subito nel dimenticatoio. Triste, ma purtroppo molto, molto probabile.

venerdì 14 aprile 2017

Nelle sale italiane dal 6 aprile, The Startup – la recensione di Marina Pavido


L'ultimo film di Alessandro D'Alatri, prodotto da Luca Barbareschi è
ispirato ad una storia vera.
Matteo Achilli ha 18 anni ed è un brillante studente del liceo. Prossimo alla maturità e stanco di subire ingiustizie nel mondo del lavoro e dello sport a causa di chi può godere delle giuste raccomandazioni, decide di inventare una app che permetta di classificare gli iscritti in base al merito, in modo da dare maggiori possibilità di carriera a chi davvero abbia le competenze adatte. Il suo progetto ha subito successo ed il ragazzo inizia a guadagnare moltissimo ed a frequentare il mondo dell’alta società. Questo suo nuovo stile di vita, però, lo porterà ad allontanarsi dalla fidanzata e dagli amici di sempre.
Indubbiamente questo ultimo lavoro di D’Alatri ad un primo impatto può interessare. Se non altro sembra distaccarsi radicalmente dagli ultimi, non proprio riusciti, lavori dello stesso autore (vedi, ad esempio, Casomai, La febbre e Commedia sexy). La storia raccontata, dal canto suo, presenta non pochi spunti da cui partire, per poi dare al lungometraggio il tono che si vuole. In questo caso, però, i non troppo velati (o quantomeno sperati) rimandi fincheriani restano, purtroppo, solo delle iniziali intenzioni. The Startup, di fatto, non riesce a “spiccare il volo”, non riesce a staccarsi dalla massa di lungometraggi sopra citati, ognuno dei quali vuole raccontarci la crisi e/o la precarietà del lavoro e/o i giovani a modo proprio. Fatta eccezione, dunque, per rari momenti riguardanti la costruzione del progetto in sé, la sua partenza ufficiale e le sue conseguenze sulla carriera di Matteo, ci troviamo di fronte ad uno dei tanti prodotti buonisti, pieni di sé e talmente tante volte rifatti da essere ormai pericolosamente prevedibili, ognuno la brutta copia dell’altro. Ciò viene qui ulteriormente sottolineato, ad esempio, dalle eccessivamente “invasive” canzoni inserite all’interno del film e soprattutto dalla prima parte di esso, la quale si limita a regalarci un ormai noioso déjà vu. Dispiace, in questo caso, soprattutto per i giovani protagonisti (Andrea Arcangeli nel ruolo di Matteo, Paola Calliari nel ruolo della sua ragazza Emma e la lanciatissima Matilde Gioli, nel ruolo della bella e “pericolosa” Cecilia). Malgrado il loro impegno, a quanto pare sono stati fortemente penalizzati da una direzione attoriale che li ha voluti eccessivamente stereotipati. Evidentemente il mondo del lavoro è stato spietato anche con loro.

Nelle sale italiane dal 6 aprile, Libere disobbedienti innamorate – la recensione di Marina Pavido


Opera prima della giovane regista israeliana Maysaloun Hamoud, presentata in concorso al Toronto International Film Festival
Siamo a Tel Aviv. Laila è un’affascinante avvocato, sicura di sé e molto ammirata. Salma, dal canto suo, ha una personalità molto più docile, lavora come barista e saltuariamente come deejay. Nour, infine, è la più fragile di tutte. Estremamente religiosa (soprattutto in seguito all’educazione ricevuta), è fidanzata e prossima alle nozze con un uomo considerato dalla propria famiglia “un buon partito”. Solo nel momento in cui andrà a vivere con Laila e Salma capirà cosa vuol dire davvero essere felici e, soprattutto, essere sé stesse.
Se si pensa al titolo originale del lungometraggio –In Between – si riesce ad inquadrare maggiormente la condizione in cui le tre ragazze si trovano. Sono donne, loro, che hanno già spiccato quel salto verso la libertà e l’affermazione di sé (cosa naturale all’interno della cultura occidentale), ma che, tuttavia, non riescono, loro malgrado, a superare del tutto la loro stessa cultura, ancora estremamente tradizionale. Il coesistere di questi due mondi, l’essere in bilico tra essi viene reso particolarmente bene dalla giovane regista, la quale, dal canto suo, pur dando al lungometraggio un andamento decisamente classico e lineare, parte inizialmente subito in quarta – grazie anche ad un particolare uso della musica (ad alto volume) e del montaggio (con tagli netti, quasi improvvisi) – facendo sì che il suo lavoro sia un lungometraggio arrabbiato, “urlato”, che sa il fatto suo e che, analogamente alle sue protagoniste, reclama a gran voce il diritto di “fare la differenza”, di distinguersi all’interno della cinematografia del proprio paese, sia per il tema trattato, sia per il fatto di essere stato girato da una donna (se si pensa a Ronit Elkabetz, a Rama Burstein e a poche altre, non sono molte, di fatto, le registe donne in Israele). E, di fatto, malgrado un (a volte fin troppo) forte attaccamento alla cinematografia occidentale, dovuto, probabilmente, in parte ai gusti personali, in parte alla scarsa esperienza dietro la macchina da presa, questo lavoro della Hamoud in qualche modo la differenza la fa. Se non altro per la genuinità della regista stessa e, soprattutto, per le brave interpreti che, malgrado una caratterizzazione forse un po’ troppo stereotipata e non del tutto naturale dei loro personaggi, riescono a rendere, di fatto, le loro Laila, Salma e Nour fortemente empatiche e fin da subito in sintonia con lo spettatore.
La creta ce l’abbiamo, ora pensiamo a modellare la scultura. E, chissà, magari prima di quanto si pensi, il cinema di Maysaloun Hamoud raggiungerà finalmente una propria, necessaria maturità, in modo da spiccare il volo una

volta per tutte.

mercoledì 29 marzo 2017

Per un figlio di Suranga D. Katugampala (Sri Lanka) – la recensione di Marina Pavido

Nelle sale italiane dal 30 marzo, opera prima prodotta da Antonio Augugliaro, già noto per aver diretto il documentario Io sto con la sposa.Sunita è una donna srilankese di mezza età che lavora come badante presso un'anziana signora in una cittadina di provincia del nord Italia. La donna ha un figlio adolescente da poco giunto in Italia, con il quale, però, c'è un rapporto tutt'altro che facile, sia per il fatto di non averlo seguito durante i suoi primi anni di vita, sia per il tentativo di quest'ultimo di integrarsi in un contesto culturale che la stessa Sunita fa fatica ad accettare.Per un figlio racconta, dunque, la storia di tante donne che, al fine di garantire ai propri figli una vita dignitosa, sono costrette ad abbandonarli fin da piccoli per andare a vivere e lavorare all'estero. Da qui la decisione da parte del giovane regista di focalizzare l'attenzione esclusivamente sulla donna, secondo una messa in scena che rispecchia in tutto e per tutto le teorie del pedinamento zavattiniano. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad un lungometraggio estremamente asciutto e realista, dove non v'è spazio per ogni qualsivoglia abbellimento, ma che ci mostra la cruda realtà così com'è. Ciò che vediamo è la quotidianità di una donna divisa tra un lavoro non facile e la gestione di un figlio adolescente che nutre nei suoi confronti non pochi rancori. Una donna che non sa come dividersi e che ogni giorno corre da una parte all'altra della cittadina con il proprio scooter, senza avere un attimo di tregua per sé stessa. La macchina da presa, dal canto suo, sembra allontanarsi dalla protagonista solo per mostrarci brevi stralci della vita del ragazzo fuori casa, insieme agli amici, nel tentativo di trovare un proprio posto nella società.La storia di una singola persona che, però, è la storia di tanta gente costretta a fare scelte non sempre facili. Non a caso, dunque, la protagonista, Sunita, è l'unico personaggio ad essere identificato con un nome proprio. Tutti gli altri sono attori di una pièce che sembra ripetersi quasi quotidianamente, indipendentemente dal luogo o dal contesto in cui ci si trova. Una pièce che, in questo caso, è stata messa in scena grazie ad uno sguardo sì giovane, ma anche estremamente maturo e consapevole, per quanto riguarda il linguaggio cinematografico. Di conseguenza, Per un figlio rappresenta un ottimo esordio sulla scena di Katugampala, da sempre attento alle problematiche del suo paese di origine e che di sicuro ha in serbo non poche sorprese per il futuro.Marina Pavido

domenica 26 marzo 2017

Nelle sale italiane dal 30 marzo, La verità, vi spiego, sull'amore - la recensione di Marina Pavido

E’ l'ultimo lungometraggio diretto da Max Croci, prodotto dalla Notorious Pictures e tratto dall'omonimo romanzo di Enrica Tesio.
Dora ha due figli piccoli, un lavoro ed una migliore amica. Il padre dei suoi bambini, dopo sette anni di convivenza, ha capito di non amarla più e da Torino si è trasferito a Milano. Non sarà facile, però, organizzare la gestione comune dei figli. Ad ogni modo, tra ritorni di fiamma, famiglie fuori dagli schemi, amicizie e nuovi amori la vita di Dora sembra ripartire col piede giusto.
Enrica Tesio, autrice del romanzo e indubbiamente dotata di uno spiccato senso dell'umorismo, ha aperto, dopo la separazione, un suo blog, dedicato alle mamme e alle storie d'amore. In molti, dunque, hanno parlato di scrittura terapeutica. Scrittura che, indubbiamente, ha aiutato molto l'autrice, ma che, se si pensa ad un eventuale prodotto destinato al grande schermo, non si sa quale efficacia possa avere ai giorni nostri.
Perché, di fatto, oggi come oggi ne abbiamo viste davvero di tutti i colori: dalle disavventure amorose in Sex and the city alle Desperate housewives, dalle varie Bridget Jones alle tante storie di mamme single ma con una grande forza di volontà dalla loro. Il tutto spesso narrato con ironia ed umorismo. Cosa può avere, dunque, di nuovo un lungometraggio come La verità, vi spiego, sull'amore, se - soprattutto dal punto di vista della messa in scena - non viene creato qualcosa che faccia sì che il prodotto in questione possa trovare una propria, marcata identità? A parte un giustificatissimo valore per chi ha ideato le storia, in realtà, ben poco. Soprattutto perché, volendoci concentrare anche solo sulla qualità del lavoro in sé, al solito ci troviamo a confrontarci inevitabilmente con quel solito, urticante buonismo che pare caratterizzare gran parte delle commedie italiane di grande distribuzione. Senza contare che anche i personaggi descritti sono talmente stereotipati da risultare quasi irreali e, ad ogni modo, poco credibili, troppo poco empatici, malgrado il tema trattato. Stesso discorso, purtroppo, vale per la protagonista stessa, interpretata da un'Ambra Angiolini in questo caso eccessivamente impostata.
Eppure è facile prevedere un discreto successo al botteghino per questo lungometraggio di Croci. Che il pubblico abbia sempre e comunque voglia di certe storie, spesso a lui vicine? Che l'importante sia trascorrere un paio d'ore di intrattenimento senza pretesa alcuna? Ai posteri l'ardua sentenza.

Marina Pavido

sabato 25 marzo 2017

Nelle sale italiane dal 30 marzo Infedelmente tua, classico intramontabile firmato Preston Sturges – la recensione di Marina Pavido

In versione restaurata - distribuito grazie a Lab80 ed al progetto Happy returns! che vede rimasterizzati in versione digitale alcuni grandi film del passato - Infedelmente tua, classico intramontabile firmato Preston Sturges.Sir Alfred De Carter è un acclamato direttore d'orchestra, felicemente sposato con la dolce Daphne. Un giorno, però, poco dopo essere tornato da un lungo viaggio, l'uomo verrà a conoscenza tramite suo cognato del fatto che, molto probabilmente, sua moglie lo tradisce con il giovane segretario. Al via, da questo punto, una serie di equivoci e situazioni al limite del paradossale.Analogamente alle sinfonie di Rossini, di Wagner, di Haendel dirette da sir Alfred, ecco che i sentimenti del protagonista vengono messi in scena sul grande schermo assumendo, di volta in volta, toni e colori diversi. Il tutto seguendo una struttura ben delineata, in cui realtà e proiezioni mentali si alternano secondo uno schema predefinito e mantenendo un ritmo in costante crescendo per tutto il lungometraggio. Notevole, a tal proposito, la scena in cui Alfred tenta in modo alquanto maldestro di mettere in atto la propria vendetta. Notevole e, proprio perché priva di dialoghi con il solo protagonista a muoversi in modo impacciato per casa, ottimo esempio di cinema allo stato puro con le sole immagini a portare avanti la narrazione.Pur essendo ricordato Sturges più per altri generi cinematografici (come dimenticare il cult del western I magnifici sette?), bisogna ammettere che anche nell'ambito della commedia il cineasta americano è riuscito a distinguersi in modo più che dignitoso, dando vita, in questo caso nello specifico, ad una pellicola frizzante ed ironica, a tratti addirittura esilarante, che - grazie anche alla mimica facciale di uno straordinario Rex Harrison - di certo può essere considerata una vera e propria perla della Hollywood degli anni d'oro.
Marina Pavido

Nelle sale italiane dal 16 marzo Chi salverà le rose? - la recensione di Marina Pavido

Chi salverà le rose? è l’opera prima del regista di Alghero Cesare Furesi. È questa la storia di Giulio (Carlo Delle Piane) e di Claudio (Lando Buzzanca), non più giovanissimi, ma uniti da un grande amore che va avanti da anni. Entrambi vivono nel loro ex albergo, andato in fallimento a causa del vizio di Giulio per il poker. Anche a seguito di ciò, Valeria, figlia di quest’ultimo, ha deciso di interrompere qualsiasi rapporto con il genitore. Un giorno, però, a causa della grave malattia di Claudio, Giulio deciderà di chiamare sua figlia insieme al nipote Marco chiedendo loro di tornare a trovarli dopo tanti anni.Che dietro il lavoro di Furesi ci siano le migliori intenzioni, è cosa certa. Molto bella, infatti, anche se non proprio originalissima, l’idea di mettere in scena la delicata storia d’amore tra i due uomini, con tutte le loro abitudini ed i loro rituali quotidiani, ad esempio. Tuttavia, la scarsa riuscita di questa sua opera prima è, dunque, sicuramente una forte ingenuità da un punto di vista prettamente cinematografico, la quale ha portato ad una messa in scena maldestra e con non pochi elementi di disturbo al proprio interno. Fin dai primi dialoghi tra Carlo Delle Piane e Lando Buzzanca, infatti, da subito qualcosa ci disturba. E non si tratta soltanto di una poco esperta direzione degli attori, bensì anche delle battute stesse presenti all’interno dello script: troppo “letterarie”, troppo macchinose, poco spontanee e quasi “finte”. Ovviamente tale problema persisterà durante tutto il lungometraggio, anche per quanto riguarda i personaggi di Valeria (Caterina Murino) ed altre figure secondarie. Esempio lampante di un uso eccessivo della parola è il momento in cui Valeria stessa, truccandosi davanti ad una specchiera, pronuncia tra sé e sé la frase “Questo pranzo non me lo voglio perdere!”. Non dimentichiamo che, però, l’errore di dare troppo spazio alle parole a scapito delle immagini può probabilmente derivare dal fatto che Furesi ha innanzitutto grande esperienza come scrittore e successivamente come regista, il che, spesso e volentieri, può creare situazioni del genere.Il vero problema di Chi salverà le rose?, però, è, di fatto, un altro. Di fianco a battute troppo “ingombranti” ed a una maldestra direzione attoriale, ecco uno script che presenta al proprio interno dei buchi decisamente importanti. Non mancano, di conseguenza, personaggi lasciati in sospeso che finiscono per non avere alcun peso all’interno della narrazione stessa (prima fra tutte Elisabetta, la ragazza di Marco), così come snodi narrativi talmente poco convincenti da far perdere di credibilità a tutto il lungometraggio (come la decisione da parte di Giulio, in prossimità del finale, di togliersi la vita e la relativa, patetica scena che vede protagonista l’uomo insieme a sua figlia Valeria).Nel tentativo di rilanciare l’albergo di famiglia, ad un certo punto la stessa Valeria afferma di voler vendere i tramonti e non le camere (riferendosi al panorama che si può vedere dalla struttura). Evidentemente tale operazione è stato anche il tentativo di Furesi nel mettere in piedi la storia. E, di fatto, come già è stato detto, di bei paesaggi e di panorami mozzafiato il film è pieno. Tutto ciò, unito alle ottime intenzioni iniziali, però, al fine di ottenere un buon risultato finale, non è sufficiente. Purtroppo.
Marina Pavido