Prosegue, dopo la pausa di chiusura settimanale del MAXXI, la XVI
edizione di Asiatica curata da Italo Spinelli. Nel fine settimana sono state
molte le curiosità e le inedite pellicole proposte dall’Oriente.
Interessante
il film doc cinese Dejide su una famiglia di pastori mongoli e il loro rapporto
con gli animali da cui traggono sostentamento. I paesaggi mozzafiato del Nord
Est della Mongolia innevato dove anche i Suv hanno bisogno dell’apripista per
potere raggiungere tutte le comunità. Il contrasto tra il carro trainato dal
bue per trasportare i blocchi di ghiaccio e i moderni Suv è immediato.
Documentario intimista che si svolge
all’interno del rifugio della famiglia di pastori fatto con le pelli delle pecore e con una grande stufa al centro per sopravvivere alle rigidissime temperature esterne. Al tema affrontato della modernità che avanza e distrugge le tradizioni ultracentenarie della famiglia della giovane Dejide sfugge però, o quantomeno è sfumato nello sfondo, quello drammatico della distruzione del territorio a causa dello sfruttamento delle miniere di carbone del sottosuolo. Forse perché abbiamo visto e abbiamo fatto i dovuti raffronti con il più potente doc Beixi moshuo (Behemoth) di Zhao Liang. Questo doc passato a Venezia e a buon ragione amato dal pubblico della Mostra. Al regista Zhao Liang è andato il premio collaterale SIGNIS per la sua capacità di illuminare in maniera poetica le conseguenze dell'industrializzazione forzata che danneggiano in maniere irreparabile la vita umana, soprattutto dei poveri.
Particolarissimo
l’altro doc incentrato sulla vita di una sciamana che in Corea viene chiamata
Manshin e del rapporto del popolo Coreano, o di almeno una parte, con la
millenaria tradizione e credenza intrisa di superstizione. La proiezione è
stata preceduta dal vivo dalla performance dei balli tradizionali coreani Pansori,
letteralmente dei cantastorie, accompagnati dagli strumenti tipici coreani a corda, a fiato e a percussione.
Invece è
commovente il doc coreano My Love, don’t cross the River. Storia intima di una
coppia di ultraottuagenari sul finire della o vita e i ricordi di ben oltre
mezzo secolo vissuti insieme. La delicatezza del linguaggio usato ricorda la
scuola giapponese.
I paesaggi
mozzafiato nel doc della regista pakistana Iara Lee ci porta sulla seconda cima
più alta del mondo con il doc K2 and the Invisible Footmen che pacificano
l’anima dello spettatore. Contrariamente al colossal Everest e al suo cast
stellare questo breve documentario ci mostra i sacrifici quotidiani dei
facchini e scalatori indigeni che scelgono di tornare sul K2 nonostante le
tragedie avvenute lì in passato. Ribaltando la percezione dell’immaginario
collettivo di un Pakistan terra di violenza e conflitti costruito di mass
media, sui scoprono le tradizioni nazionali del Pakistan.
Infine il
toccante doc Sigh del turco Metin Kaya girato nel 2015 nelle miniere ove
lavorano come minatori dei bambini nonostante la loro età. Il film è stato
selezionato nella sezione documentari del Festival del film di Istanbul 2015
alla sua 34ma edizione che come è noto è stata sospesa dagli organizzatori
stessi per protesta alle censure governative.
Quanto ai
lungometraggi in concorso ancora una volta la cinematografia Iraniana primeggia
con un film psicotico Oblivion Season incentrato sul rapporto di una coppia ,
ma anche delle contraddizioni del mondo iraniano nei confronti delle donne. Il
film però ci riserva un colpo di scena finale dal sapore amaro. Di
tutt’altro tenore è il film Fig Fruit and The Wasps del pittore e regista
indiano Prakash Babu che tiene in sospeso per 90’ lo spettatore in una realtà
indiana contadina senza però giungere ad una meta. Vengono proposte alcune
problematiche della società indiana, con ritmo ossessivo e ripetitivo
ritornando al termine del film al suo punto di partenza. Stupisce il
film Down the River dell’azerbaigiano Asif Rustamov che improvvisamente pone il
protagonista Ali, allenatore di una squadra di canottaggio di cui fa parte
anche il figlio Ruslan, davanti ad un tragico evento. Ali si trova ad
affrontare emozioni che non sa come gestire.
Fuori
concorso One Million Steps della cineasta turca Eva Stotz sul movimento di
protesta di Piazza Gezi a ritmo del ballo di tip tap della protagonista che
assiste agli scontri violenti con la polizia.Assistiamo come il potere tiri fuori di se il peggio.
Come è ormai
tradizione dell’Asiatica anche quest’anno la sezione Jumping Frames, ovvero
corti sull’arte figurativa della danza, riserva delle piacevoli sorprese. Il
balletto di Hong Kong Ode on Korean Urn del 2011 ammalia lo spettatore con l’alternanza del
ritmo serrato dei tamburi al melodioso coro di voci bianche sullo sfondo del
balletto di giovanette in candide vesti in una distesa di urne. Altrettanto
intenso Eternal Sunshine con inquadrature intimistiche all’interno di una cella
ove si dibatte il corpo di un prigioniero. Di stile netto minimalista Body
Watch del cinese Ziv Chun che insieme alla coreagrafa Frankie Ho ha realizzato
e filmato un balletto sui rapporti tra uomo e donna in un susseguirsi di
contrappunti e fraintendimenti. Sempre dalla collaborazione, questa volta
belga, del regista Pierre Larauza e la coreografa Emmanuelle Vincent viene
fuori una metafora metropolitana di tubi che scoppiano, piastrelle che
collassano, bulldozer che ruggiscono e grattacieli che svettano ed emerge la
forza della civiltà e dello sviluppo nel corto Welcome.
Ieri al
terzo giorno del Festival in programma due pellicole di cui non perdere le
repliche. L’attesissimo film israeliano in bianco e nero TIKKUN di Avishai
Sivan sull’ortodossia portata alle sue estreme conseguenze. Il film si è
imposto a Locarno dove ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria. Ma anche
dallo Sri Lanka lo sconvolgente doc di Prasanna Vithanage Silence in the
Courts, sulla condizione di inferiorità delle donne nel Paese dove è radicata
questa disparità di genere purtroppo anche a livello istituzionale.
Con queste
premesse il Festival ASIATICA risulta ancora una volta vivo e portavoce di film
esteticamente innovativi e di contenuti forti per far scoprire a noi
occidentali cosa succede ad Oriente.
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