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Anteprime e Recensioni Cinematografiche, tutto quello che c'è da sapere su Festival Internazionali del Cinema e quanto di nuovo succede intorno alla Settima Arte, a cura di Luigi Noera e la gentile collaborazione di Ugo Baistrocchi, Simona Noera e Marina Pavido.



sabato 25 febbraio 2017

SPECIALE #OSCAR 2017#3: Moonlight di Barry Jenkins, USA 2016, 110’ – la recensione di Marino Demata (Rive Gauche)

Il regista di Moonlight, Barry Jenkins, si rimette dietro la macchina da presa, per il suo secondo film, a distanza di otto anni dalla sua opera prima. Infatti nel 2008 aveva girato Medicine for Melancholy,un bel film che tratta di un giorno di amore di una improvvisata coppia afro-americana. Sullo sfondo una San Francisco non sempre disposta a riconoscere l’entità culturale del mondo a cui appartengono i due protagonisti. Il film, tra l’altro, indipendente e con bassissimo budget, è stato un grande successo negli USA, sia nei numerosi festival a cui ha partecipato, sia al botteghino. La sua seconda opera, Moonlight, si presenta con premesse addirittura superiori: ben otto candidature agli Oscar.  Vedremo se l’organizzazione del massimo premio cinematografico saprà questa
volta superare una certa reticenza a conferire premi ai candidati di colore, come lo scorso anno vivacemente denunciato da Spike Lee. Oltre alle candidature va segnalato anche il successo ai Golden Globe award quale miglior film drammatico, Il soggetto è tratto da una pièce teatrale breve di Tarell Alvin McCraney, In Moonlight Black Boys Look Blue, che è una frase che ritroviamo in una delle scene più significative del film. Barry Jenkins cerca di scrollarsi di dosso la matrice teatrale del film, riuscendovi in buona parte attraverso una sceneggiatura ben congegnata, da lui stesso direttamente curata. E’ la storia di Chiron, dalla sua infanzia fino alla sua piena maturità, passando attraverso la difficile epoca dell’adolescenza, secondo i modi cronologici del tipico romanzo di formazione. Sì, perché si tratta proprio di una storia di formazione del carattere, delle idee, del proprio ruolo nella vita di Chiron. Uno dei pregi del film è che questa “formazione” viene mostrata nella sua evoluzione in tre fasi e quindi scandita in tre capitoli del film, ove in ciascun capitolo il regista fa la drastica scelta di montare solo alcuni episodi più significativi che caratterizzano le tre epoche, risparmiando al pubblico inutili lungaggini (rischio sempre presente in questa tipologia di film), ma al contrario restando su un linguaggio stringato ed essenziale. il film ha come teatro uno dei quartieri periferici di Miami, pieno di miseria e di decadenza, ove lo spaccio di droga è l’attività principale per i neri in parte provenienti da Cuba, che popolano la zona in stragrande maggioranza. Il primo atto è intitolato Little, dal nomignolo affibbiato a Charon dai suoi coetanei. Il bambino è bellissimo; un volto iper-espressivo tutto occhi, fin dalla prima scena nella quale  Juan (Mahershala Ali) lo trova per caso in una baracca vicino al centro di smercio di droga da lui stesso diretto. Little sembra solo e abbandonato a causa della vita della madre (Naomie Harris), più interessata alla droga pesante e alle proprie soddisfazioni sessuali che al proprio figlio. Per questo motivo Little trova un interesse compensativo in Juan, nella sua compagna e nella loro casa, alla quale gradatamente si affeziona preferendola alla casa materna. Nel secondo atto, che prende direttamente il nome del ragazzo, Charon, assistiamo alla sua crescita, alle sue vicissitudini scolastiche, soprattutto a causa di un gruppo di compagni di scuola, che lo bersagliano con atti di bullismo, ai quali ad un  certo punto Charon si ribellerà con violenza tale da finire in un riformatorio. Ma è anche l’epoca nella quale Charon porterà compimento la ricerca della sua propria identità sessuale, scoprendo di essere gay, grazie anche all’incontro con Kevin, un amico della sua fanciullezza: in una scena piena di tenue delicatezza sulla spiaggia di Miami, Chiron scoprirà i primi palpiti d’amore. Nel terzo segmento del film, intitolato “Black”, dal nomignolo col quale l’amico Kevin ama chiamare Charon, ritroviamo quest’ultimo ad Atlanta, Georgia, ove dirige settori del locale traffico di droga, che gli ha portato l’agiatezza, che ama ostentare con collane e denti d’oro, mentre la madre è in una casa di recupero e riabilitazione dall’uso delle droghe pesanti. La sua vita ha una svolta allorchè riceve all’improvviso e dopo anni di silenzio una telefonata da Kevin, che ha aperto un piccolo ristorante e lo invita a Miami ad assaggiare le sue specialità. Questo basta a Chiron per mettersi in auto sull’autostrada e a piombare nella sua città natale. I due si rivedono. I discorsi sono velati di malinconia per il passato. Chiron rivela a Kevin di non aver sfiorato più nessuna persona dal loro incontro sulla spiaggia. Film di formazione, come si diceva, e di ricerca della propria identità, non esente da qualche piccolo difetto, costituito forse proprio dalle conseguenze di quella stringatezza che abbiamo registrato come uno dei pregi del film. Infatti, in conseguenza dello stile asciutto, essenziale e stringato innanzitutto della sceneggiatura, Jenkins lascia lo spettatore senza risposte su alcune questioni. Ne citiamo una fra tutte: dalla metà del secondo episodio in poi non c’è più traccia di Juan, il capo spacciatore della zona di Miami, la prima persona ad incontrare Chiron e ad indicargli un senso alla vita. Lo spettatore arguisce dalla scomparsa del personaggio che sia morto o che magari sia fuggito altrove o sia finito in prigione. Indubbiamente, data la estrema importanza del personaggio di Juan, una esplicitazione sul suo destino forse non avrebbe guastato. Ma si tratta di difetti che non inficiano l’impianto estremamente attraente  e coinvolgente di “Moonlight”. La storia del film, dal progetto originario, alla sua compiuta realizzazione ci dice che esso ha trovato il suo santo patrono e protettore in Brad Pitt, in uno di quegli episodi miracolosi che solo nel cinema americano possono accadere. Pitt era già rimasto positivamente impressionato dal primo film ultra-low budget e in bianco e nero di Barry Jankins. I due si incontrarono e si conobbero nel 2013 al Telluride Film Festival nel corso di un dibattito sul film 12 anni schiavo, del quale Pitt era stato co-produttore e attore in una parte secondaria. Brad Pitt rimase così impressionato dalle idee di Jankins, che decise di dare una mano, in qualità di produttore esecutivo, alla trasposizione cinematografica della piece teatrale di Tarell Alvin McCraney. Altre forze produttive si associarono a Brad Pitt e in questo modo fu possibile dare vita a questo film che ha già lasciato il segno. E la nomination agli otto Oscar è già un grosso segnale di quell’ intuito produttivo di Brad Pitt, che, nella notte degli Oscar, e malgrado la fortissima concorrenza, potrebbe essere ulteriormente premiato. Marino Demata

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