Nelle sale italiane
dal 25 maggio, Ritratto di famiglia con tempesta è l'ultimo lungometraggio del regista
giapponese Hirokazu Kore'eda, presentato nella sezione Un
certain regard al Festival
di Cannes 2016 - la recensione di Marina Pavido
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjyuu-6xqb_7WO_HAhlqW8cRrqafVUmQkQVAkO2IG10O_LBMnG9j92gSQr-JPJ-aVitWtpKW6oJ734wUYvzR5FrweRfmumzeByKrUA9aiXMqRT-CnwJcyhgLlIIcvsSEIFPPLX7cMY7n5uZ/s320/ritratto+di+famiglia.jpg)
Ma cosa comporterà,
in realtà, la tempesta? Il protagonista, di fatto – come spesso affermato dalla
sua stessa madre – è un eterno bambino mai cresciuto, un albero di mandarini
che non dà frutti né fiori, ma che è molto utile a sfamare i bruchi destinati a
trasformarsi in splendide farfalle. Ryoto, dal canto suo, di certo non può
dirsi maturato fino in fondo, eppure sarà in grado ad insegnare al proprio
figlio – eccessivamente maturo per la sua età – quant’è bello sognare ad occhi
aperti e coltivare i propri sogni, indipendentemente dal fatto di riuscire o
meno a realizzarli. Sarà la tempesta, dunque, a spazzare via ogni qualsivoglia
dubbio nei confronti dei rapporti con i propri famigliari ed ogni timore per
quanto riguarda il futuro. Ed ecco che Ryoto padre non ha più paura di riscoprirsi
Ryoto figlio, riconciliandosi in qualche modo con il genitore defunto dopo aver
preso definitivamente coscienza dell’affetto che quest’ultimo nutriva per lui.
Ancora una volta,
dunque, la figura paterna diventa tema centrale in Kore’eda. È stato così per
il bellissimo Father and son (2013), così come per il recente Little
sister (2015), dove
la figura del padre scomparso darà il via all’intera vicenda. Anche qui è il
genitore defunto ad avere un peso centrale nello sviluppo del protagonista: è a
causa del rapporto irrisolto tra i due che Ryoto rifiuta inconsciamente di
crescere, è a causa delle loro incomprensioni che l’uomo cerca a tutti i costi
di non commettere gli stessi errori con il proprio figlio e di spronarlo a
coltivare i propri sogni.
Un lungometraggio,
dunque, piuttosto complesso e stratificato. Una storia assolutamente non facile
ed estremamente delicata che solo un cineasta del calibro di Kore’eda – con il
suo sguardo attento e mai invasivo - avrebbe potuto mettere in scena. Ed ecco
che piccoli gesti di normale quotidianità come il preparare i letti o
l’amorevole attenzione e cura nel cucinare diventano attraverso la macchina da
presa pura poesia. Una macchina da presa che, dal canto suo, si colloca sempre
all’altezza del personaggio, quasi alla ozuiana maniera, riuscendo ad entrare
così nel suo intimo senza mai risultare invadente. È soprattutto questa,
dunque, l’abilità di Kore’eda: la capacità di riuscire a mantenere, da adulto,
la freschezza e lo sguardo limpido di un bambino, facendo in modo che anche noi
tutti possiamo ritornare, anche solo per un paio d’ore, a vedere il mondo come
eravamo soliti fare tanti, tanti anni fa.
Marina Pavido
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