Ultimo lungometraggio della regista ed attrice francese Nicole
Garcia, tratto dall'omonimo romanzo di Milena Agus e presentato in concorso al Festival
di Cannes 2016.
Gabrielle non è
una persona semplice. Nata e cresciuta in un piccolo paesino nella Francia
degli anni Cinquanta, ben poco sembra adattarsi al contesto in cui vive, alle
tradizioni ed alla mentalità eccessivamente chiusa e provinciale dei suoi
compaesani. È, al contrario, una donna libera, appassionata, fortemente
bisognosa d’amore ed estremamente fragile. Talmente fragile da soffrire di “mal
di pietre”, con tanto di dolorosi crampi addominali. Un male, il suo, del tutto
psicosomatico, che soltanto curando mente e spirito potrà essere sconfitto. Per
quanto riguarda la mente, però, i problemi sono ben altri, dal momento che
proprio per questo suo modo di “urlare” i suoi bisogni affettivi, Gabrielle è,
a detta di tutti, famigliari compresi, completamente pazza. Solo suo marito,
sposato più per il desiderio di fuggire da quell’ambiente angusto ed ostile che
per amore, sembra riuscire a “leggere tra le righe”, a capire quella persona
così complessa e così ostinata che vive al suo fianco.
Un personaggio
dalle mille sfaccettature, dunque, quello di Gabrielle. Un personaggio che
viene reso magnificamente sullo schermo dalla bravissima Marion Cotillard (lei,
si sa, può davvero tutto), ma a cui non viene reso giustizia dal punto di vista
dello script in sé: quel che emerge della protagonista è solo la “punta
dell’iceberg”. Nulla ci viene detto del suo passato, ben poco vengono
approfonditi i legami con José – suo marito – ed André, il suo amante.
Personaggi, anch’essi, di grande interesse e complessità (soprattutto per
quanto riguarda José), ma che vengono qui sviluppati in modo eccessivamente
raffazzonato e frettoloso. Il tentativo di narrare per immagini i tormenti
interiori di ognuno di essi risulta, dunque, carente di una necessaria e più
profonda introspezione, così come il buon Ingmar Bergman ci ha insegnato. Ma,
si sa, non è affatto facile rifare Ingmar Bergman.
Ben poco,
quindi, possono suggestive inquadrature di panorami mozzafiato o fedeli
ricostruzioni di ambienti d’epoca. Il grande problema di Mal di pietre – oltre
alla musica eccessivamente presente, smielata e quasi patetica - è proprio lo
script. Uno script che, pur mantenendo di base la storia originale, ha voluto
“spiccare il volo”, assumere una propria identità perdendo, però, il controllo
della situazione e dando vita a qualcosa di banale ed inconsistente, malgrado
le iniziali potenzialità. Uno script a cui si perdonano, tuttavia, soltanto i
velati riferimenti/omaggi al cinema ed alle sue origini (vedi la cittadina di
La Ciotat, dove vivono Gabrielle e José, ma anche la loro permanenza a Lione –
città dei fratelli Lumière – presso l’hotel Langlois – proprio come il caro
vecchio Henri Langlois!). Ma, si sa, tutto questo non è abbastanza. Ed ecco che
anche Mal di pietre si andrà ben presto ad unire ai numerosi prodotti passati
in sala e finiti quasi subito nel dimenticatoio. Triste, ma purtroppo molto,
molto probabile.
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