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Anteprime e Recensioni Cinematografiche, tutto quello che c'è da sapere su Festival Internazionali del Cinema e quanto di nuovo succede intorno alla Settima Arte, a cura di Luigi Noera e la gentile collaborazione di Ugo Baistrocchi, Simona Noera e Marina Pavido.



venerdì 14 aprile 2017

Nelle sale italiane dal 6 aprile, Libere disobbedienti innamorate – la recensione di Marina Pavido


Opera prima della giovane regista israeliana Maysaloun Hamoud, presentata in concorso al Toronto International Film Festival
Siamo a Tel Aviv. Laila è un’affascinante avvocato, sicura di sé e molto ammirata. Salma, dal canto suo, ha una personalità molto più docile, lavora come barista e saltuariamente come deejay. Nour, infine, è la più fragile di tutte. Estremamente religiosa (soprattutto in seguito all’educazione ricevuta), è fidanzata e prossima alle nozze con un uomo considerato dalla propria famiglia “un buon partito”. Solo nel momento in cui andrà a vivere con Laila e Salma capirà cosa vuol dire davvero essere felici e, soprattutto, essere sé stesse.
Se si pensa al titolo originale del lungometraggio –In Between – si riesce ad inquadrare maggiormente la condizione in cui le tre ragazze si trovano. Sono donne, loro, che hanno già spiccato quel salto verso la libertà e l’affermazione di sé (cosa naturale all’interno della cultura occidentale), ma che, tuttavia, non riescono, loro malgrado, a superare del tutto la loro stessa cultura, ancora estremamente tradizionale. Il coesistere di questi due mondi, l’essere in bilico tra essi viene reso particolarmente bene dalla giovane regista, la quale, dal canto suo, pur dando al lungometraggio un andamento decisamente classico e lineare, parte inizialmente subito in quarta – grazie anche ad un particolare uso della musica (ad alto volume) e del montaggio (con tagli netti, quasi improvvisi) – facendo sì che il suo lavoro sia un lungometraggio arrabbiato, “urlato”, che sa il fatto suo e che, analogamente alle sue protagoniste, reclama a gran voce il diritto di “fare la differenza”, di distinguersi all’interno della cinematografia del proprio paese, sia per il tema trattato, sia per il fatto di essere stato girato da una donna (se si pensa a Ronit Elkabetz, a Rama Burstein e a poche altre, non sono molte, di fatto, le registe donne in Israele). E, di fatto, malgrado un (a volte fin troppo) forte attaccamento alla cinematografia occidentale, dovuto, probabilmente, in parte ai gusti personali, in parte alla scarsa esperienza dietro la macchina da presa, questo lavoro della Hamoud in qualche modo la differenza la fa. Se non altro per la genuinità della regista stessa e, soprattutto, per le brave interpreti che, malgrado una caratterizzazione forse un po’ troppo stereotipata e non del tutto naturale dei loro personaggi, riescono a rendere, di fatto, le loro Laila, Salma e Nour fortemente empatiche e fin da subito in sintonia con lo spettatore.
La creta ce l’abbiamo, ora pensiamo a modellare la scultura. E, chissà, magari prima di quanto si pensi, il cinema di Maysaloun Hamoud raggiungerà finalmente una propria, necessaria maturità, in modo da spiccare il volo una

volta per tutte.

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