Descrizione

Anteprime e Recensioni Cinematografiche, tutto quello che c'è da sapere su Festival Internazionali del Cinema e quanto di nuovo succede intorno alla Settima Arte, a cura di Luigi Noera e la gentile collaborazione di Ugo Baistrocchi, Simona Noera e Marina Pavido.



mercoledì 5 aprile 2017

IRISH FILM FESTA X EDIZIONE ROMA, 30 MARZO – 2 APRILE 2017


Con la presenza di JIM SHERIDAN E GERARD MCSORLEY si è chiusa la Xma edizione con la proiezione dei Corti vincitori – diario dalla Casa del Cinema grazie alla fattiva collaborazione di Marina Pavido
Domenica 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma si è conclusa alla presenza di due massimi rappresentanti del cinema irlandese, il regista Jim Sheridan e l’attore Gerard McSorley, la decima edizione di IRISH FILM FESTA, primo e unico festival italiano interamente dedicato alla cinematografia dell’Irlanda. Grande successo anche per questa edizione del festival che ha visto tantissimi ospiti arrivare nella capitale per presentare film, cortometraggi o partecipare agli incontri previsti nel fitto programma. Al di sopra delle aspettative la risposta del pubblico che nei quattro giorni della kermesse ha riempito la Sala
Deluxe e la Sala Kodak della Casa del Cinema. Durante la giornata conclusiva oltre agli ultimi incontri e proiezioni, si è svolta la cerimonia di premiazione del concorso, riservato ai cortometraggi di produzione o co-produzione irlandese, che quest’anno ha presentato quindici opere diversificate nei vari generi e nelle tecniche di realizzazione. La Giuria composta da Oscar Cosulich, giornalista critico cinematografico e direttore artistico del Future Film Festival; Barry Monahan, docente di Film Studies presso l’University City di Cork; e Serenella Zanotti, docente di Lingua e Traduzione inglese presso l’Università di Roma Tre, ha assegnato i premi del concorso cortometraggi. A trionfare come miglior corto nella sezione live action è Gridlock di Ian Hunt Duffy, un thriller che vede come protagonista Moe Dunford già ospite al festival nel 2015 con Patrick’s Day di Terry McMahon, e tra gli interpreti della serie Vikings. Vince invece il premio come miglior corto della sezione animazione Second to None di Vincent Gallagher, una commedia nera sul secondo uomo più vecchio del mondo. Tra gli altri ospiti che hanno partecipato al festival oltre a Jim Sheridan e Gerard McSorley, Il regista Ciarán Creagh e l’attrice protagonista Caoilfhionn Dunne
(nel cast della serie Love/Hate) del film in programma In View; Peter Foot regista di The Young Offenders miglior film irlandese al Galway Film Fleadh 2016; e Martin McCann voce narrante del documentario Bobby Sands: 66 Days di Brendan J. Byrne, nonchè regista e interprete del corto Starz, entrambi in programma al festival.


Marina Pavido che ha seguito la manifestazione tra i lungometraggi mette
al primo posto MAMMAL, seguito da SANCTUARY e IN VIEW. Abbiamo il piacere di proporvi le sue considerazioni sui primi due e del vincitore Gridlock di Ian Hunt Duffy, miglior corto nella sezione live action.

Mammal di  Rebecca Daly: INSIEME OLTRE LA MORTE (voto: 7.5)

Quanto può essere forte il legame madre-figlio? In che modo può sopravvivere alla distanza, al distacco o, addirittura, alla morte? Non sempre si riesce a trovare una risposta a tale quesito. Eppure, in genere una madre sa sempre trovare, in un modo o nell’altro, una strada per mantenere vivo questo legame. È questo, ad esempio, il caso di Margaret, protagonista di Mammal, - secondo lungometraggio della giovane (ma cinematograficamente matura) regista Rebecca Daly (con già una terza opera in cantiere), presentato in anteprima alla 10° edizione dell’Irish Film Festa – la quale prova a modo suo a superare la morte del figlio adolescente – da lei abbandonato insieme al padre quando era ancora in fasce – ospitando nella sua abitazione un giovane ragazzo di strada ferito in seguito ad un pestaggio. Con l’arrivo in casa del ragazzo, dunque, in qualche modo, suo figlio ricomincia a vivere. E non lo fa soltanto attraverso la cicatrice di un parto cesareo, né attraverso le foto sui volantini che lo indicano disperso. Lo fa, stavolta, attraverso un ragazzo in carne ed ossa, un ragazzo della sua stessa età, con problematiche forse simili alle sue e che indossa i suoi stessi vestiti. Un ragazzo che possa permettere alla donna di tornare indietro nel tempo e di rimediare in qualche modo a tutte le mancanze ed agli errori commessi nei confronti di suo figlio.
Non solo, dunque, è il rapporto madre-figlio al centro di questo importante lungometraggio della Daly. Mediante il complesso e ben scritto personaggio di Margaret (impersonata dalla brava Rachel Griffiths) sono soprattutto il senso di colpa, il perdono, la redenzione a fare da colonne portanti. La Margaret qui presentataci, dal canto suo, per impostazione e messa in scena poco si discosta dalla tormentata ragazza in Daisy Diamond, raccontataci nel 2007 da Simon Staho. Con la differenza, però, che, in Mammal, la protagonista non è più vittima dei suoi stessi sensi di colpa, ma, al contrario, lotta, tenta di reagire con tutte le sue forze. Anche a costo di correre grossi rischi. Ed ecco che, piano piano, la messa in scena sembra assumere via via sempre più i toni del giallo, del thriller, con raffinati giochi di luci e di ombre in ambienti angusti all’interno della casa della protagonista, oscure presenza alla porta e, sullo sfondo, una città grigia, cupa, come se qualsiasi cosa al di fuori del rapporto tra Margaret ed il ragazzo fosse già morta. Una città, in fin dei conti, severa e giudicante, che sembra non voler perdonare in nessun caso gli errori commessi.
Ma non è tutto. Dato il tema trattato - e quasi come da copione - un ruolo particolarmente rilevante è stato affidato all’elemento dell’acqua. L’acqua come placenta materna. L’acqua che dà la vita, ma anche la morte. È in acqua che è annegato il figlio di Margaret. È in acqua che la donna è solita trattenere il fiato per provare qualcosa di nuovo, pericoloso e, in qualche modo, liberatorio. È in acqua che, insieme al ragazzo sconosciuto, si riesce a trovare un punto di incontro. Solo in acqua, apparentemente - come anche stanno a suggerirci i cromatismi virati al blu – si riesce a trovare la tanto desiderata pace con sé stessi. Eppure, in Mammal, l’acqua rappresentata è sempre ferma, piatta, non scorre mai, non si rinnova mai. Sia essa l’acqua all’interno di una piscina, di un lago o di una vasca da bagno. Segno che – contrariamente a quanto sostenuto da Eraclito – non tutto scorre. Segno che, in realtà, nulla può cancellare le cicatrici del passato. Certe colpe, certi errori sembrano non trovare mai, in fondo e nonostante tutto, una propria, agognata redenzione.

Sanctuary, opera prima del giovane regista Len Collin: ALLEGRO MA
NON TROPPO  (voto: 7)
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è affatto facile dar vita ad un film corale. O meglio, non è affatto facile far sì che il film corale a cui si è dato vita sia esattamente ciò che si dice un prodotto soddisfacente e ben riuscito. Volendo, per un attimo, mettere da parte colui che dei film corali è sempre stato il maestro indiscusso – ossia il buon Robert Altman – non sono molti, di fatto, i lungometraggi del genere realmente degni di nota. Non sono molti, eppure ci sono. Se a tale formula uniamo il tema della disabilità – mentale o fisica che sia – ecco che subito ci salta alla mente un vero e proprio cult della storia del cinema: Qualcuno volò sul nido del cuculo, capolavoro di Miloš Forman diretto nel 1975. Eppure Forman non è stato l’unico a parlarci di disagio mentale. È dello stesso anno, infatti, l’interessantissimo documentario Matti da slegare, firmato Silvano Agosti, Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, così come lo stesso Agosti quasi contemporaneamente realizza Il volo, altro toccante documentario che ci racconta un momento di “evasione” di alcuni pazienti dell’ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste. Volendo fare un salto di qualche decennio, ecco che – sempre restando in Italia – ritroviamo Si può fare, lungometraggio a soggetto diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, ambientato negli anni immediatamente successivi alla chiusura dei manicomi in seguito alla legge Basaglia. Sono questi tutti prodotti – chi più chi meno – degni di nota, che, in un modo o nell’altro, hanno “fatto la differenza”.
All’interno di un panorama dove, a quanto pare, tutto ormai sembra già essere stato detto, in che modo può distinguersi, dunque, un lungometraggio come Sanctuary, opera prima del giovane regista Len Collin, passato (ingiustamente) quasi in sordina al Festival di Cannes 2016 e presentato in anteprima italiana alla 10° edizione dell’Irish Film Festa? Indubbiamente, non solo per il tema trattato, ma anche per la particolare cura dedicata, nonché per la singolare messa in scena, questo lavoro di Collin, in fin dei conti, riesce a distinguersi eccome.
Tratto dall’omonima pièce teatrale di Christian O’Reilly, portata in scena dalla Blue Teapot Theatre Company, compagnia teatrale composta da ragazzi con disabilità intellettive, Sanctuary è stato girato con la medesima compagnia: ragazzi allegri, pieni di vita e con uno spiccato talento per la recitazione che sono riusciti perfettamente a portare avanti praticamente da soli – con leggerezza ed ironia – l’intero lungometraggio. Girato con un budget visibilmente ridotto, il film di Collin si svolge nell’arco di un’intera giornata: il giorno in cui un gruppo di ragazzi ospiti di una casa-famiglia viene accompagnato al cinema da un assistente. Nel momento in cui il ragazzo responsabile della loro uscita si allontana per accompagnare due di loro – innamoratissimi – a trascorrere un paio d’ore in una suite d’albergo, ecco accadere il finimondo: ognuno dei ragazzi uscirà dalla sala e andrà in giro per conto proprio nel centro della città di Galway. Ritrovarli tutti e riunirli per poter tornare a casa sembrerà, a questo punto, un’impresa praticamente impossibile.
I toni sono lievi e naïf. L’ironia e l’autoironia sono forti. Eppure, nonostante l’andamento “leggero” di tutto il lungometraggio, questa opera di Collin sta a denunciare soprattutto un sistema legislativo ottuso ed obsoleto, che non fa che discriminare ulteriormente chi soffre di disabilità di ogni genere, senza pensare in primis al benessere dei malati. Ed ecco che, nel momento in cui la legge vuol dire la sua, da commedia leggera, Sanctuary si trasforma in un prodotto crudo e disincantato, che ben poche speranze ripone in un prossimo futuro. Un film solo apparentemente “ingenuo”, con una propria, ben marcata identità e con un importante messaggio alla base. Un film, dunque, che, per la sua disarmante semplicità unita ad una forte efficacia comunicativa, lascia il segno. Vera e propria chicca all’interno del panorama cinematografico contemporaneo.

Gridlock di Ian Hunt Duffy ovvero LA BAMBINA SCOMPARE (voto: 7.5)
Un giovane uomo. Sua figlia di sei anni. Una telefonata piuttosto concitata durante un viaggio in macchina. All’improvviso, una lunga fila di automobili ferme, in attesa di poter proseguire il viaggio. Nel momento in cui l’uomo andrà a vedere cosa è successo, la bambina scomparirà misteriosamente. Chi sarà stato il responsabile della sua scomparsa? Quasi sicuramente qualcuno degli automobilisti in fila. Bisognerà vedere chi, però. Ma questo è solo l’inizio. Da questo momento in poi, infatti, prenderà il via un thriller di tutto rispetto, con tanto di picchi di tensione al suo interno uniti a momenti più “leggeri” ed ironici. Ed il tutto si svolgerà in poco meno di venti minuti. Stiamo parlando di Gridlock, cortometraggio diretto dal giovane regista Ian Hunt Duffy e presentato in concorso alla 10° edizione dell’Irish Film Festa, dove è stato premiato come miglior cortometraggio in live action.
Alfred Hitchcock sosteneva che, al fine di creare suspense, bisogna dare allo spettatore il maggior numero di informazioni possibile, riguardo a ciò che sta accadendo sullo schermo. Detto ciò, dunque, in un giallo la formula del whodunit (dall’inglese “who has done it?” – “chi lo ha fatto?”) risulta spesso poco appropriata, se si vuole tenere il pubblico in un costante stato di tensione. Un esempio particolarmente chiarificatore in merito – come lo stesso zio Alfred ci ha spiegato – può essere una scena in cui due uomini stanno parlando seduti al tavolino in un bar. Entrambi, ovviamente, sono ignari del fatto che sotto lo stesso tavolino vi è collocata una bomba pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Lo spettatore, al contrario, ne è perfettamente a conoscenza. Ed ecco che, dunque, per quest’ultimo, l’intera scena – fino al momento dell’esplosione – sarà particolarmente ricca di suspense. Cosa che, ovviamente, non accadrebbe se l’ordigno si limitasse ad esplodere senza che nessuno – spettatore compreso – fosse venuto a conoscenza della sua presenza. Ovviamente, questa regola non sempre è stata rispettata dallo stesso Hitchcock. Basti pensare, ad esempio, ad uno dei suoi lungometraggi più interessanti – anche se meno conosciuti – che, sia per tematiche che per impostazione, ricorda molto lo stesso Gridlock: La signora scompare (1937).
Bene, detto questo, il cortometraggio di Ian Hunt DUffy si svolge, come già si può intuire dopo una breve scorsa della sinossi, seguendo – analogamente a quanto accade in La signora scompare – in tutto e per tutto la classica formula del whodunit, proprio come quanto accadeva, ad esempio, anche nei gialli di Agatha Christie – con Poirot, Miss Murple e compagnia bella – a cui siamo tanto affezionati e che, di fatto, hanno sempre funzionato, se si vuol parlare di suspense. Sarà per il gruppo ristretto di sospettati, sarà per gli ambienti chiusi ed angusti, ma questa formula tanto amata dalla Christie, se usata nel modo giusto, funziona eccome. Lo stesso, come già detto, accade qui, in Gridlock, dove il giovane autore riesce alla perfezione a dare vita ad un thriller soddisfacente e “completo”, malgrado i pochi minuti a disposizione. Merito, ovviamente, di uno script di ferro, merito della caratterizzazione di ogni singolo personaggio (come non notare, a tal proposito, il misterioso uomo chiuso in macchina che sembra non voler in nessun modo prendere parte alla ricerca della bambina?), merito dell’ambientazione e, non per ultima, di una regia attenta ai dettagli e consapevole che, anche grazie a singoli elementi (il cavallo investito ed insanguinato che blocca il passaggio delle macchine, ma anche la bambola della bambina), dimostra piena padronanza del linguaggio cinematografico e, soprattutto, sa come gestire e dosare la suspense al punto giusto. Fino ad un più che soddisfacente ribaltamento finale.
Ed ecco che il premio per il miglior cortometraggio in live action risulta, dunque, più che meritato. Premio che è, di fatto, solo un’ulteriore conferma del valore artistico di questo piccolo ma efficace lavoro di un cineasta che, ci auguriamo, possa regalarci, in futuro, ancora tante, tante emozioni.
Marina Pavido

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