Con la presenza di JIM SHERIDAN E GERARD
MCSORLEY si è chiusa la Xma edizione con la proiezione dei Corti vincitori –
diario dalla Casa del Cinema grazie alla fattiva collaborazione di Marina
Pavido
Domenica 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma si è conclusa
alla presenza di due massimi rappresentanti del cinema irlandese, il regista
Jim Sheridan e l’attore Gerard McSorley, la decima edizione di IRISH FILM
FESTA, primo e unico festival italiano interamente dedicato alla cinematografia
dell’Irlanda. Grande successo anche per questa edizione del festival che ha
visto tantissimi ospiti arrivare nella capitale per presentare film, cortometraggi
o partecipare agli incontri previsti nel fitto programma. Al di sopra delle
aspettative la risposta del pubblico che nei quattro giorni della kermesse ha
riempito la Sala
Deluxe e la Sala Kodak della Casa del Cinema. Durante la
giornata conclusiva oltre agli ultimi incontri e proiezioni, si è svolta la
cerimonia di premiazione del concorso, riservato ai cortometraggi di produzione
o co-produzione irlandese, che quest’anno ha presentato quindici opere
diversificate nei vari generi e nelle tecniche di realizzazione. La Giuria
composta da Oscar Cosulich, giornalista critico cinematografico e direttore
artistico del Future Film Festival; Barry Monahan, docente di Film Studies
presso l’University City di Cork; e Serenella Zanotti, docente di Lingua e
Traduzione inglese presso l’Università di Roma Tre, ha assegnato i premi del
concorso cortometraggi. A trionfare come miglior corto nella sezione live
action è Gridlock di Ian Hunt Duffy, un thriller che vede come protagonista Moe
Dunford già ospite al festival nel 2015 con Patrick’s Day di Terry McMahon, e
tra gli interpreti della serie Vikings. Vince invece il premio come miglior
corto della sezione animazione Second to None di Vincent Gallagher, una
commedia nera sul secondo uomo più vecchio del mondo. Tra gli altri ospiti che
hanno partecipato al festival oltre a Jim Sheridan e Gerard McSorley, Il
regista Ciarán Creagh e l’attrice protagonista Caoilfhionn Dunne
(nel cast
della serie Love/Hate) del film in programma In View; Peter Foot regista di The
Young Offenders miglior film irlandese al Galway Film Fleadh 2016; e Martin
McCann voce narrante del documentario Bobby Sands: 66 Days di Brendan J. Byrne,
nonchè regista e interprete del corto Starz, entrambi in programma al festival.
Marina Pavido che ha
seguito la manifestazione tra i lungometraggi mette
al primo posto MAMMAL, seguito
da SANCTUARY e IN VIEW. Abbiamo il piacere di proporvi le sue considerazioni
sui primi due e del vincitore Gridlock di Ian Hunt Duffy, miglior corto nella
sezione live action.
Mammal di Rebecca Daly: INSIEME OLTRE LA MORTE (voto: 7.5)
Quanto può essere forte il legame madre-figlio? In che modo
può sopravvivere alla distanza, al distacco o, addirittura, alla morte? Non
sempre si riesce a trovare una risposta a tale quesito. Eppure, in genere una
madre sa sempre trovare, in un modo o nell’altro, una strada per mantenere vivo
questo legame. È questo, ad esempio, il caso di Margaret, protagonista di
Mammal, - secondo lungometraggio della giovane (ma cinematograficamente matura)
regista Rebecca Daly (con già una terza opera in cantiere), presentato in
anteprima alla 10° edizione dell’Irish Film Festa – la quale prova a modo suo a
superare la morte del figlio adolescente – da lei abbandonato insieme al padre
quando era ancora in fasce – ospitando nella sua abitazione un giovane ragazzo
di strada ferito in seguito ad un pestaggio. Con l’arrivo in casa del ragazzo,
dunque, in qualche modo, suo figlio ricomincia a vivere. E non lo fa soltanto
attraverso la cicatrice di un parto cesareo, né attraverso le foto sui
volantini che lo indicano disperso. Lo fa, stavolta, attraverso un ragazzo in
carne ed ossa, un ragazzo della sua stessa età, con problematiche forse simili
alle sue e che indossa i suoi stessi vestiti. Un ragazzo che possa permettere
alla donna di tornare indietro nel tempo e di rimediare in qualche modo a tutte
le mancanze ed agli errori commessi nei confronti di suo figlio.
Non solo, dunque, è il rapporto madre-figlio al centro di
questo importante lungometraggio della Daly. Mediante il complesso e ben
scritto personaggio di Margaret (impersonata dalla brava Rachel Griffiths) sono
soprattutto il senso di colpa, il perdono, la redenzione a fare da colonne
portanti. La Margaret qui presentataci, dal canto suo, per impostazione e messa
in scena poco si discosta dalla tormentata ragazza in Daisy Diamond,
raccontataci nel 2007 da Simon Staho. Con la differenza, però, che, in Mammal,
la protagonista non è più vittima dei suoi stessi sensi di colpa, ma, al
contrario, lotta, tenta di reagire con tutte le sue forze. Anche a costo di
correre grossi rischi. Ed ecco che, piano piano, la messa in scena sembra
assumere via via sempre più i toni del giallo, del thriller, con raffinati
giochi di luci e di ombre in ambienti angusti all’interno della casa della
protagonista, oscure presenza alla porta e, sullo sfondo, una città grigia,
cupa, come se qualsiasi cosa al di fuori del rapporto tra Margaret ed il
ragazzo fosse già morta. Una città, in fin dei conti, severa e giudicante, che
sembra non voler perdonare in nessun caso gli errori commessi.
Ma non è tutto. Dato il tema trattato - e quasi come da
copione - un ruolo particolarmente rilevante è stato affidato all’elemento
dell’acqua. L’acqua come placenta materna. L’acqua che dà la vita, ma anche la
morte. È in acqua che è annegato il figlio di Margaret. È in acqua che la donna
è solita trattenere il fiato per provare qualcosa di nuovo, pericoloso e, in
qualche modo, liberatorio. È in acqua che, insieme al ragazzo sconosciuto, si
riesce a trovare un punto di incontro. Solo in acqua, apparentemente - come
anche stanno a suggerirci i cromatismi virati al blu – si riesce a trovare la
tanto desiderata pace con sé stessi. Eppure, in Mammal, l’acqua rappresentata è
sempre ferma, piatta, non scorre mai, non si rinnova mai. Sia essa l’acqua
all’interno di una piscina, di un lago o di una vasca da bagno. Segno che –
contrariamente a quanto sostenuto da Eraclito – non tutto scorre. Segno che, in
realtà, nulla può cancellare le cicatrici del passato. Certe colpe, certi
errori sembrano non trovare mai, in fondo e nonostante tutto, una propria,
agognata redenzione.
Sanctuary, opera
prima del giovane regista Len Collin: ALLEGRO MA
NON TROPPO (voto: 7)
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è affatto
facile dar vita ad un film corale. O meglio, non è affatto facile far sì che il
film corale a cui si è dato vita sia esattamente ciò che si dice un prodotto
soddisfacente e ben riuscito. Volendo, per un attimo, mettere da parte colui
che dei film corali è sempre stato il maestro indiscusso – ossia il buon Robert
Altman – non sono molti, di fatto, i lungometraggi del genere realmente degni
di nota. Non sono molti, eppure ci sono. Se a tale formula uniamo il tema della
disabilità – mentale o fisica che sia – ecco che subito ci salta alla mente un
vero e proprio cult della storia del cinema: Qualcuno volò sul nido del cuculo,
capolavoro di Miloš Forman diretto nel 1975. Eppure Forman non è stato l’unico
a parlarci di disagio mentale. È dello stesso anno, infatti,
l’interessantissimo documentario Matti da slegare, firmato Silvano Agosti,
Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, così come lo stesso Agosti
quasi contemporaneamente realizza Il volo, altro toccante documentario che ci
racconta un momento di “evasione” di alcuni pazienti dell’ospedale psichiatrico
San Giovanni di Trieste. Volendo fare un salto di qualche decennio, ecco che –
sempre restando in Italia – ritroviamo Si può fare, lungometraggio a soggetto
diretto nel 2008 da Giulio Manfredonia, ambientato negli anni immediatamente
successivi alla chiusura dei manicomi in seguito alla legge Basaglia. Sono
questi tutti prodotti – chi più chi meno – degni di nota, che, in un modo o
nell’altro, hanno “fatto la differenza”.
All’interno di un panorama dove, a quanto pare, tutto ormai
sembra già essere stato detto, in che modo può distinguersi, dunque, un
lungometraggio come Sanctuary, opera prima del giovane regista Len Collin,
passato (ingiustamente) quasi in sordina al Festival di Cannes 2016 e
presentato in anteprima italiana alla 10° edizione dell’Irish Film Festa?
Indubbiamente, non solo per il tema trattato, ma anche per la particolare cura
dedicata, nonché per la singolare messa in scena, questo lavoro di Collin, in
fin dei conti, riesce a distinguersi eccome.
Tratto dall’omonima pièce teatrale di Christian O’Reilly,
portata in scena dalla Blue Teapot Theatre Company, compagnia teatrale composta
da ragazzi con disabilità intellettive, Sanctuary è stato girato con la
medesima compagnia: ragazzi allegri, pieni di vita e con uno spiccato talento
per la recitazione che sono riusciti perfettamente a portare avanti
praticamente da soli – con leggerezza ed ironia – l’intero lungometraggio.
Girato con un budget visibilmente ridotto, il film di Collin si svolge
nell’arco di un’intera giornata: il giorno in cui un gruppo di ragazzi ospiti
di una casa-famiglia viene accompagnato al cinema da un assistente. Nel momento
in cui il ragazzo responsabile della loro uscita si allontana per accompagnare
due di loro – innamoratissimi – a trascorrere un paio d’ore in una suite
d’albergo, ecco accadere il finimondo: ognuno dei ragazzi uscirà dalla sala e
andrà in giro per conto proprio nel centro della città di Galway. Ritrovarli
tutti e riunirli per poter tornare a casa sembrerà, a questo punto, un’impresa
praticamente impossibile.
I toni sono lievi e naïf. L’ironia e l’autoironia sono
forti. Eppure, nonostante l’andamento “leggero” di tutto il lungometraggio,
questa opera di Collin sta a denunciare soprattutto un sistema legislativo
ottuso ed obsoleto, che non fa che discriminare ulteriormente chi soffre di
disabilità di ogni genere, senza pensare in primis al benessere dei malati. Ed
ecco che, nel momento in cui la legge vuol dire la sua, da commedia leggera,
Sanctuary si trasforma in un prodotto crudo e disincantato, che ben poche
speranze ripone in un prossimo futuro. Un film solo apparentemente “ingenuo”,
con una propria, ben marcata identità e con un importante messaggio alla base.
Un film, dunque, che, per la sua disarmante semplicità unita ad una forte
efficacia comunicativa, lascia il segno. Vera e propria chicca all’interno del
panorama cinematografico contemporaneo.
Gridlock di Ian Hunt
Duffy ovvero LA BAMBINA SCOMPARE (voto: 7.5)
Un giovane uomo. Sua figlia di sei anni. Una telefonata
piuttosto concitata durante un viaggio in macchina. All’improvviso, una lunga
fila di automobili ferme, in attesa di poter proseguire il viaggio. Nel momento
in cui l’uomo andrà a vedere cosa è successo, la bambina scomparirà
misteriosamente. Chi sarà stato il responsabile della sua scomparsa? Quasi
sicuramente qualcuno degli automobilisti in fila. Bisognerà vedere chi, però.
Ma questo è solo l’inizio. Da questo momento in poi, infatti, prenderà il via
un thriller di tutto rispetto, con tanto di picchi di tensione al suo interno
uniti a momenti più “leggeri” ed ironici. Ed il tutto si svolgerà in poco meno
di venti minuti. Stiamo parlando di Gridlock, cortometraggio diretto dal giovane
regista Ian Hunt Duffy e presentato in concorso alla 10° edizione dell’Irish
Film Festa, dove è stato premiato come miglior cortometraggio in live action.
Alfred Hitchcock sosteneva che, al fine di creare suspense,
bisogna dare allo spettatore il maggior numero di informazioni possibile,
riguardo a ciò che sta accadendo sullo schermo. Detto ciò, dunque, in un giallo
la formula del whodunit (dall’inglese “who has done it?” – “chi lo ha fatto?”)
risulta spesso poco appropriata, se si vuole tenere il pubblico in un costante
stato di tensione. Un esempio particolarmente chiarificatore in merito – come
lo stesso zio Alfred ci ha spiegato – può essere una scena in cui due uomini
stanno parlando seduti al tavolino in un bar. Entrambi, ovviamente, sono ignari
del fatto che sotto lo stesso tavolino vi è collocata una bomba pronta ad
esplodere in qualsiasi momento. Lo spettatore, al contrario, ne è perfettamente
a conoscenza. Ed ecco che, dunque, per quest’ultimo, l’intera scena – fino al
momento dell’esplosione – sarà particolarmente ricca di suspense. Cosa che,
ovviamente, non accadrebbe se l’ordigno si limitasse ad esplodere senza che
nessuno – spettatore compreso – fosse venuto a conoscenza della sua presenza.
Ovviamente, questa regola non sempre è stata rispettata dallo stesso Hitchcock.
Basti pensare, ad esempio, ad uno dei suoi lungometraggi più interessanti –
anche se meno conosciuti – che, sia per tematiche che per impostazione, ricorda
molto lo stesso Gridlock: La signora scompare (1937).
Bene, detto questo, il cortometraggio di Ian Hunt DUffy si
svolge, come già si può intuire dopo una breve scorsa della sinossi, seguendo –
analogamente a quanto accade in La signora scompare – in tutto e per tutto la
classica formula del whodunit, proprio come quanto accadeva, ad esempio, anche
nei gialli di Agatha Christie – con Poirot, Miss Murple e compagnia bella – a
cui siamo tanto affezionati e che, di fatto, hanno sempre funzionato, se si
vuol parlare di suspense. Sarà per il gruppo ristretto di sospettati, sarà per
gli ambienti chiusi ed angusti, ma questa formula tanto amata dalla Christie,
se usata nel modo giusto, funziona eccome. Lo stesso, come già detto, accade
qui, in Gridlock, dove il giovane autore riesce alla perfezione a dare vita ad
un thriller soddisfacente e “completo”, malgrado i pochi minuti a disposizione.
Merito, ovviamente, di uno script di ferro, merito della caratterizzazione di
ogni singolo personaggio (come non notare, a tal proposito, il misterioso uomo
chiuso in macchina che sembra non voler in nessun modo prendere parte alla
ricerca della bambina?), merito dell’ambientazione e, non per ultima, di una
regia attenta ai dettagli e consapevole che, anche grazie a singoli elementi
(il cavallo investito ed insanguinato che blocca il passaggio delle macchine,
ma anche la bambola della bambina), dimostra piena padronanza del linguaggio
cinematografico e, soprattutto, sa come gestire e dosare la suspense al punto
giusto. Fino ad un più che soddisfacente ribaltamento finale.
Ed ecco che il premio per il miglior cortometraggio in live
action risulta, dunque, più che meritato. Premio che è, di fatto, solo
un’ulteriore conferma del valore artistico di questo piccolo ma efficace lavoro
di un cineasta che, ci auguriamo, possa regalarci, in futuro, ancora tante,
tante emozioni.
Marina Pavido
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