Nelle sale italiane dal 12 gennaio, Magic Island è
l’ultima opera del documentarista Marco Amenta, il quale ci racconta in modo
trasversale il celebre attore e caratterista statunitense, di origini
siciliane, Vincent Schiavelli. La vicenda prende il via da NYC, dove vive e
lavora come musicista Andrea, figlio ventisettenne dell’attore, il quale – pur
essendo legatissimo al padre – negli ultimi anni della vita di questi non è più
riuscito a coltivare il rapporto con lui. Un giorno Andrea riceve una
telefonata dalla Sicilia e . . .
Il documentario di Amenta, vuoi per l’enigmatica – ma non
troppo – figura di Vincent Schiavelli, vuoi per la tecnica narrativa
utilizzata, vuoi per la magia dei posti raccontati, a fine visione lascia una
piacevole quanto rara sensazione di appagamento interiore allo spettatore. All’inizio
la storia fatica a decollare con la macchina da presa che tende ad indugiare
eccessivamente sulla quotidianità del ragazzo: Ma prende il suo ritmo all’arrivo
in Sicilia man mano che la figura di Vincent Schiavelli si fa meno misteriosa in
un crescendo visivo e colonna sonora frutto del protagonista stesso che si fa
via via sempre più “presente”. Ed anche gli abitanti, i profumi, i colori del
paesino siciliano esplodono nel vero senso della parola sul grande schermo,
facendoci sentire subito parte di quei posti magici, vera e propria
trasfigurazione dello scomparso Schiavelli. Esplosione, questa, che lascia poi
posto ad una rinnovata tranquillità, quando arriva il momento di lasciare le
terre del padre e di tornare, come rinato, alla vita di tutti i giorni. Nel documentario
di Amenta la terra è la vera protagonista, trattata alla stregua di un vero e
proprio essere vivente, con il suo potere salvifico. Ottimo espediente per
raccontare un personaggio come quello di Schiavelli, che abbiamo visto più e
più volte, ma che, forse, non abbiamo mai avuto modo di conoscere a
sufficienza. Alla terra è affidato, dunque, l’importante incarico di ridargli
vita. Per il resto, pochissimi – e brevissimi – sono i filmati di repertorio e
addirittura sono assenti le interviste frontali in un racconto che somiglia più
a un film a soggetto. Quali critiche gli si potrebbero muoversi dunque? Che il doc appaia talvolta privo di
spontaneità ed eccessivamente costruito? Tuttavia il risultato finale è una pellicola
contemplativa e poetica, ma anche viva, commovente ed allegra allo stesso tempo
mai eccessiva.
Marina Pavido
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